Maria Antonietta - Regina di Francia


 
Replying to Jai Ma Kali
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celeborn36Posted: 9/7/2009, 19:48
già stile "Fulmine di pegaso!"
EllethPosted: 9/7/2009, 13:25
CITAZIONE (Ophelyee @ 25/6/2009, 15:05)
..... a volte vorrei avere sei braccia come la dea kali..

.....ops....quattro...... :P

Pensa che international di schiaffoni a chi ti fa incavolare!!! image
OphelyeePosted: 25/6/2009, 14:05
..... a volte vorrei avere sei braccia come la dea kali..

.....ops....quattro...... :P
Nefer SnefruPosted: 22/6/2009, 08:29

Nel pantheon induista Kali è una dea con una storia lunga e complessa; anche se spesso è presentata come oscura e violenta, in virtù della sua prima incarnazione che era una figura d’annichilazione e che ha ancora una discreta influenza, le credenze tantriche estendono il suo ruolo fino a farne la Realtà Ultima (Brahman) ed Origine del Tutto; è anche conosciuta ed adorata come Bhavatarini (Redentrice dell’Universo) nel tempio di Dakshineswar.
Attualmente la maggioranza dei fedeli del movimento devozionale concepisce Kali semplicemente come una dea madre benevola; oltre ad essere associata con il dio Shiva, Kali è associata anche ad altre Dee: Durga, Bhadrakali, Bhavani, Sati, Rudrani, Parvati, Chinnamasta, Chamunda, Kamakshi o Kamakhya, Uma, Meenakshi, Himavanti, Kumari e Tara. Si crede che questi nomi, se ripetuti, diano uno speciale potere al fedele. È la dea più importante tra i Dasa Mahavidyas.

Kālī è il genere femminile del termine sanscrito kāla, che significa “nero, di colore scuro”, ma anche “tempo”. Per questo motivo il suo nome è stato più volte tradotto come Colei che è il tempo, o Colei che consuma il tempo o la Madre del tempo, ed infine Colei che è nera. È anche il nome di una forma della Dea Durga nel Mahābhārata, ed il nome di uno spirito maligno di sesso femminile nel Harivamsa.
L’omonimia con il termine “tempo”, che secondo il contesto può significare anche “morte”, è distinta dal termine “nero”, ma sovente l’etimologia popolare li associa. L’associazione si trova nel Mahābhārata, dove incontriamo una figura femminile che porta via gli spiriti dei guerrieri e degli animali uccisi: essa è chiamata Kālarātri (che secondo Thomas Coburn, uno storico della letteratura sanscrita, è traducibile con “notte di morte”) ed anche kālī (che, sempre secondo Coburn, potrebbe indicare sia un nome proprio sia un attributo).
L'associazione al colore nero della dea è in contrasto con suo marito Shiva, il cui corpo è ricoperto di cenere bianca, cenere dei terreni di cremazione (in sanscrito: śmaśāna) nei quali medita, cui è associata anche Kali come Śmaśāna Kālī.

Kali compare per la prima volta nel Mundaka Upanishad non esplicitamente come dea, ma come la nera tra le sette lingue fiammeggianti di Agni, il dio hindu del fuoco; tuttavia, il prototipo della figura che conosciamo come Kali appare nel Rig Veda, sotto forma di una dea chiamata Raatri, che è considerata anche il prototipo di Durga.
Nel periodo Sangam (circa 200 a.c.e. – 200 c.e.) del Tamilakam, una dea sanguinaria simile a Kali di nome Kottravai fa la sua comparsa nella letteratura del periodo. Come Kali ha i capelli sciolti, ispira terrore in chi la avvicina e festeggia sui campi di battaglia disseminati di morti. È probabile che la fusione della sanscrita dea Raatri con la indigena Kottravai abbia prodotto le terrifiche dee dell’induismo medievale, la cui figura preminente è per l’appunto Kali.
Fu la composizione dei Purana nella tarda antichità a dare a Kali un posto nel pantheon induista. Kali, o Kalika, è descritta nella Devi Mahatmya (nota anche come Chandi o Durgasaptasati) dal Markandeya Purana, databile tra il 300 ed il 600 c.e., dove si afferma che sia un’emanazione della dea Durga, una distruttrice di demoni o avidya (parola sanscrita che significa anche ignoranza, assenza di saggezza), comparsa durante una battaglia tra le forze divine ed anti-divine. In questo contesto Kali è considerata la forma “potente”, o piuttosto irata, della grande dea Durga. Un'altra versione delle origini di Kali si può trovare nel Matsya Purana, circa 1500 c.e., in cui si afferma che nacque come dea tribale nella parte nord settentrionale dell’India, nella regione del monte Kalanjara (ora noto come Kalinjar); versione contestata data l’origine molto tarda della leggenda.

Il Kalika Purana è un’opera di fine IX – inizio X secolo, ed è uno degli Upapurana. Descrive principalmente diverse manifestazioni della dea, fornisce i loro dettagli iconografici, le cavalcature e le armi, oltre a tracciare anche i rituali per l’adorazione di Kalika.
Nelle tradizioni più tarde Kali è diventata inestricabilmente legata al marito Shiva. La forma irata di Kali rischia di diventare selvaggia ed incontrollabile, e solo lui riesce a farla tornare allo stato pacifico; questo è dovuto al fatto che egli solo è in grado di imbrigliare la sua ferocia. I suoi metodi variano dallo sfidarla ad una danza selvaggia del tandava, all’apparirle come un bambino piangente, stimolando così l’istinto materno della dea. Tuttavia, l'iconografia rappresenta spesso Kali sul corpo supino di Shiva, e vi sono anche riferimenti ad una loro danza: nel sud dell’India vi è una tradizione di una gara di danza tra Kali e Shiva Nataraja (il Signore della Danza), il creatore del Bharata Natyam, la danza classica del Tamil Nadu; vi si potrebbe ravvisare il ricordo di una vittoria degli shivaiti su una divinità femminile locale.
Il motivo della furia incontrollata lo incontriamo anche presso alte culture, in Egitto per esempio: Hator è inviata da Ra a sterminare il genere umano e si trasforma nella leonessa Sekhmet, ma la furia distruttiva la rende incontrollabile, e viene tranquillizzata grazie a degli stratagemmi; oppure lo stesso Shiva, che nella forma semi-leonina di Narashima perde il controllo della propria furia.

È stato spesso affermato che i fedeli di Kali Ma nel passato la placassero con sacrifici umani, magari anche sfocianti in atti di cannibalismo; al giorno d’oggi viene talvolta propiziata con sacrifici di mammiferi (in genere una capra), benché più spesso si adoperino simbolicamente fiori e polvere rossa. Era adorata da una setta segreta di assassini che operava principalmente in Bengala, i thug, le cui tradizioni hanno contribuito a crearne in Occidente un’immagine esclusivamente negativa: non si ha la certezza però che si possa trattare di un’invenzione degli Inglesi durante l’occupazione coloniale, escogitata per legittimare diverse loro azioni nei territori indiani: gli Inglesi affermano di avere combattuto ed annientato i thug negli anni attorno al 1830.

Da Kali la città di Kolkata ha preso il suo nome, costituito dalla forma anglicizzata di Kalighata, nome di un grande tempio a lei dedicato.

Vi sono moltissime forme di Kali ed ogni città, villaggio o quartiere sembra avere la propria, famosa per un particolare tipo di miracolo o fatto; perfino i ladri e i briganti hanno la loro Kali. Fino a non troppo tempo fa le bande che vivevano nei boschi dell’India adoravano Dakait Kali, per lo meno finché non hanno iniziato a trasferirsi nelle città e nei sobborghi urbani. Alcune di queste immagini di Kali sono molto antiche, e sono ancora oggetto di culto, magari per altre ragioni diverse da quelle originali.

Nel suo aspetto terrifico è raffigurata generalmente nuda, salvo che al collo porta una collana composta di teschi di demone ed indossa una gonna fatta di braccia mozzate; è spesso rappresentata con i lunghi capelli scarmigliati, occhi rossi, una lingua estroflessa e quattro braccia. Con la mano superiore sinistra regge una spada insanguinata, mentre con la mano inferiore sinistra regge la testa tagliata di un demone. La mano destra superiore compie il gesto di allontanare la paura e la inferiore destra quello di esaudire i desideri; come Madre Divina figura spesso ballare con Shiva, o essere sessualmente unita al consorte.
Nella sua forma di Bhavatarini, la Redentrice dell’Universo, è in piedi sul corpo supino di Shiva.

Il Tantra menziona oltre trenta forme di Kali; Ramakrishna (figura centrale dell’Induismo moderno) ne ha parlato spesso.
La dea è nota come Kali Ma, la Dea Nera, Maha Kali, Nitya Kali, Smashana Kali, Raksha Kali, Shyama Kali, Kalikamata e Kalaratri; tra i Tamil è nota come Kottravai; Maha Kali e Nitya Kali sono menzionate nei testi di filosofia tantrica.
Prima che fossero creati il sole, la luna, la terra e gli altri pianeti, quando vi era solo ed ancora l’oscurità, la Madre, la Senza Forma Maha Kali, divenne tutt’uno con l’Assoluto, Maha Kala.
Shyama Kali ha un aspetto gentile, ed è adorata dalle famiglie hindu, è la dispensatrice dei doni e libera dalle paure.
Raksha Kali, la Protettrice, viene pregata soprattutto nei tempi di epidemie, carestia, siccità, terremoti, inondazioni.
Śmaśāna Kali è l’incarnazione del potere della distruzione ed abita nei terreni di cremazione, affiancata da sciacalli, demoni femminili e cadaveri; dalla sua bocca stilla del sangue, al collo porta una collana di teschi e veste una gonna fatta di braccia tagliate.
I tantristi praticano il culto di Siddha Kali per raggiungere la perfezione, mentre Phalaharini Kali li aiuta a distruggere i risultati delle loro azioni (ossia ad eliminare il karma negativo); e Nitya Kali, Kali l’eterna, li aiuta ad eliminare malattia, dolore e sofferenza, ed a raggiungere perfezione e illuminazione.

Vediamo brevemente i simboli legati a Kali Ma:


  • Nome: il nome della dea indica che divora Kala (il tempo) per poi ridare origine alla sua manifestazione come oscurità senza forma. È l’incarnazione dei tre guna, o qualità della natura: crea attraverso sattva (bontà e purezza), preserva con rajas (passione ed attività) e distrugge con tamas (ignoranza ed inerzia). Kali è Fanciulla, Madre e Crona al pari di molte altre dee a noi più vicine, come la greca Ecate.

  • Carnagione: è blu scuro, il colore del cielo a notte fonda; e così come il cielo è senza limiti, anche Kali non ne ha alcuno.

  • Volto sorridente: indica che la dea è nella piena beatitudine.

  • Terzo occhio: simboleggia la saggezza; i suoi tre occhi corrispondono anche a passato, presente e futuro.

  • Lingua: i denti bianchi simboleggiano sattva, o la serenità; la lingua rossa corrisponde a rajas, l’attività; la sua ubriachezza è tamas o l’inerzia. Ossia: tamas può essere vinto da rajas e rajas da sattva.

  • Seno turgido: è la nutrice di tutti gli esseri.

  • Forma terribile: Kali è la madre dell’universo, ma ne è anche il distruttore.

  • Collana: è formata da cinquanta teschi che rappresentano le altrettante lettere dell’alfabeto sanscrito, l’origine del suono; Kali è Shabda Brahman, o il Logos, la fonte della creazione. Rappresenta anche le innumerevoli persone che la dea ha liberato dalle illusioni dell’ego e dalla paura della morte e della rinascita.

  • Nudità: è chiamata digambari (vestita di spazio); la dea è infinita, e nessun abito è in grado di coprirla.

  • Capelli: lunghi, neri, scomposti e liberi indicano che Kali è libera dai confini della concettualizzazione; tuttavia un’altra interpretazione suggerisce che ogni capello sia un jiva (un’anima individuale), e che quindi tutte le anime abbiano le loro radici nella dea.

  • Crescente di luna sul diadema: la dea è la portatrice della liberazione.

  • Orecchini: le immagini di due bimbi da appendere alle orecchie significano che ascolta le anche preghiere dei più piccoli devoti.

  • Mani destre: l’inferiore destra compie il gesto per offrire benedizioni (varadamudra), la superiore quello di allontanamento della paura (abhayamudra); Kali protegge i suoi figli dal pericolo ed esaudisce i loro desideri.

  • Mani sinistre: la superiore regge una spada, l’inferiore una testa mozzata di recente. Tramite la non-dualità Kali può recidere i legami della schiavitù umana con la spada della conoscenza e liberare l’anima per sempre dai legami dell’ego e dell’autoillusione; la testa rappresenta la sede dell’attaccamento, l’ego: ciò che vediamo come una decapitazione è l’allegoria del più sublime atto di compassione della dea verso i suoi fedeli, la liberazione dalle illusioni.

  • Vita: Kali porta in vita una sorta di gonna formata da braccia tagliate all’altezza del gomito, che rappresentano le azioni. Tutte le azioni umane ed i loro risultati arrivano alla dea, ed alla fine di ogni ciclo tutte le anime si uniscono a lei per poi evolversi di nuovo durante la nuova creazione secondo i rispettivi karma.

  • Shiva sotto i suoi piedi: Shiva e Shakti sono sempre assieme; lui è l’aspetto immutabile del Supremo, mentre lei è quella che lo cambia apparentemente; Shiva è pura coscienza cosmica e Kali è l’energia cosmica; nessuna creazione è possibile senza la loro unione: Shiva non può manifestare il suo potere senza Kali, e Kali non può funzionare senza la consapevolezza di Shiva.

  • Dakshina Kali e Vama Kali: se la dea è raffigurata col piede destro avanti è Dakshina Kali (forma benigna), mentre se è il suo piede sinistro ad essere avanzato è Vama Kali (forma terrifica).

Le dee rivestono un ruolo importante negli studi e nelle pratiche del Tanta Yoga, ed è stato affermato che abbiano un ruolo determinante per discernere la realtà ultima rispetto alle divinità maschili. Sebbene Parvati sia stata spesso definita come colei che riceve la saggezza di Shiva nel Tantra, è Kali che sembra dominare nell’iconografia, nei testi e nei rituali tantrici. Sostanzialmente, la vita e la morte sono come due lati della stessa medaglia, e non possono esistere una senza l’altra, così il fedele di Kali deve superare il terrore della morte per poter accedere alle benedizioni ed alla protezione derivanti dal lato materno della dea.
In molte fonti Kali è considerata come la realtà ultima o la più grande delle divinità. Il Nirvnana-tantra spiega che la trimurti ossia gli dei Brama, Visnu e Shiva sorgono da lei come le bolle nel mare, che incessantemente si innalzano e passano oltre, lasciando immutata la loro sorgente originale. Il Niruttara-tantra ed il Picchila-tantra dichiarano entrambi che tutti i mantra di Kali sono i più grandi, mentre lo Yogini-tantra, il Kamakhya-tantra e il Niruttara-tantra proclamano Kali vidyas (manifestazione di Mahadevi), e dichiarano che Ella che è un’essenza della sua stessa forma (svarupa) di Mahadevi.

Nel Mahanirvana-tantra, Kali è uno degli epiteti della shakti primordiale, ed in un passaggio Shiva stesso la loda:

Alla dissoluzione delle cose è Kala [il Tempo] che divora tutto, ed in ragione di ciò Egli è chiamato Mahakala [è un epiteto di Shiva], e poiché Tu divorerai Mahakala stesso sei Tu che sei la Suprema Primordiale Kalika. Poiché divorerai Kala Tu sei Kali, la forma originale di tutte le cose, e poiché sei l’Origine e la Divoratrice di tutte le cose sei chiamata Adya [primordiale] Kali. Riprendendo dopo la dissoluzione la Tua vera natura, scura e senza forma, Tu sola rimani come ineffabile e inconcepibile. Pur avendo una forma sei senza forma, pur essendo senza inizio, multiforme per il potere di Maya, Tu sei l’inizio di tutto, Creatrice, Protettrice e Distruttrice, questo sei.

La figura di Kali veicola morte, distruzione, paura e gli aspetti caduchi della realtà; come tale è vista anche come una “cosa proibita” o la morte stessa. Nel rituale del Panacatattva il sadhaka (praticante, in sanscrito) cerca coraggiosamente di affrontare Kali e, di conseguenza, la assimila e la trasforma in un veicolo di salvezza. Ciò risulta chiaro in un’opera del Karpuradi-stotra, una breve preghiera a Kali che descrive il Panacatattva, eseguito in un luogo di cremazione (Samahana-sadhana).

Colui, o Mahakali, che sul terreno di cremazione, nudo e coi capelli scarmigliati, medita intensamente su di te e recita il Tuo mantra, e ad ogni recitazione Ti offre migliaia di fiori di Akanda con i semi, diventa senza alcuno sforzo un Signore della terra. Oh Kali, chi il martedì a mezzanotte dopo aver recitato il tuo mantra offre con devozione a Te un capello della sua Shakti [la sua partner femminile] in un terreno di cremazione, diventa un grande poeta, un Signore della terra, e si muoverà sempre montando un elefante.

Il Karpuradi-stotra indica chiaramente che Kali è molto più di una terribile e selvaggia cacciatrice di demoni che serve Durga, o Shiva. Qui viene identificata come la suprema signora dell’universo, associata con tutti i cinque elementi. In unione con Shiva, che si dice essere il suo sposo, crea e distrugge i mondi. La sua comparsa può anche prendere una piega diversa, passando dal suo ruolo di regolatrice di mondi a quello di oggetto di meditazione. In contrasto con i suoi aspetti terribili, Kali assume anche una connotazione più benigna: è descritta come giovane e bella, con un dolce sorriso, e con le due mani destre compie il gesto per dissipare qualsiasi timore e per offrire benedizioni. Le caratteristiche più positive ora esposte offrono la sublimazione della collera divina in una dea di salvezza, che salva il sadhaka dalla paura: qui Kali appare come un simbolo della vittoria sulla morte.

Nell’induismo la parola sanscrita shakti indica l’energia di un Deva (dio maschio), che spesso viene personificata come sua moglie.
La fase ultima di sviluppo del culto di Kali è la sua visione come la Grande Dea Madre, generalmente priva della violenza che caratterizza le sue emanazioni irate; questa pratica è una frattura con le tradizionali immagini della dea. I pionieri di questa tradizione sono i poeti shaktas (adoratori di Shakti, l'energia) del XVIII secolo, che dimostrano una comprensione della natura ambivalente di Kali, che è la figura centrale della letteratura devozionale del tardo medio evo bengalese, con figure come Ramprasad Sen (1718-1775). Con l’eccezione di essere associata a Parvati come consorte di Shiva, Kali è raramente dipinta nella mitologia e nell’iconografia induista come una figura materna fino all’inizio del movimento devozionale bengalese dei primi del XVIII secolo. Anche in questa tradizione il suo aspetto e le sue abitudini cambiano ben poco, per non dire nulla. I suoi templi più conosciuti sono quelli di Kalighat e Dakshineshvara.
Secondo il lavoro di Rachel McDermott, Sir John Woodroffe e Georg Feuerstein, per i tantristi moderni Kali non è così temibile, e solo coloro che praticano l’approccio di vecchia tradizione a Kali la vedono come dea irata: questo metodo è quello di mostrare il coraggio di affrontarla in un terreno da cremazione, durante la notte dei morti nonostante la terrificante apparenza; al contrario, il devoto bengalese fa propri gli insegnamenti di Kali adottando l’attitudine di un bambino. In ambedue i casi lo scopo del devoto è di riconciliarsi con la morte ed imparare ad accettare le cose così come sono: sono questi temi affrontati nei lavori di Ramprasad. Questi commenta in diversi canti che Kali è indifferente al suo benessere, che gli causa sofferenze, che riduce a nulla i suoi desideri mondani, e rovina le sue felicità terrene. Afferma inoltre che non si comporta come una madre, e che ignora i suoi appelli:

Può la misericordia essere trovata nel cuore di Colei che è nata dalla pietra? [Riferimento a Kali come la figlia di Himalaya]
Non fu Lei che senza pietà calpestò il petto del suo signore?
Gli uomini ti chiamano Misericordiosa, ma non v’è traccia di misericordia in Te, Madre.
Hai tagliato le teste ai figli degli altri, e ne hai fatto la collana che porti al collo.
Non importa quanto io ti chiami “Madre, Madre”. Mi senti, ma non mi ascolterai.


Per essere figlio di Kali, sostiene Ramprasad, è necessario rinunciare alle delizie ed ai piaceri terreni. Kali è nota per non dare ciò che ci si aspetta; per il devoto è forse il rifiuto della dea che lo spinge a riflettere su sé stesso e ad andare oltre le dimensioni della realtà che vanno oltre il mondo materiale.

Una larga parte della musica sacra bengalese ha Kali come tema centrale, ed è nota come Shyama Sangeet. Principalmente interpretata da cantanti di sesso maschile, oggi anche le donne partecipano a queste forme musicali. Uno dei migliori cantanti di Shyama Sangeet è Pannalal Bhattacharya.

Il santo bengalese Ramakrishna è stato un grande devoto di Kali. Ha guadagnato una reputazione in Occidente per l'introduzione delle più moderne interpretazioni sul carattere ambivalente della dea.

Il luogo per il culto di Kali è abbastanza terribile a vedersi: un terreno di cremazione in un cimitero, con l’aria densa di fumo delle pire funerarie e punteggiata dalla cenere bianca portata dal vento, con sparsi in giro frammenti di ossa e carne con corvi ed altri uccelli che li beccano; questo genere di devoti non conosce avversioni o paure, non teme nulla; è tuttavia un luogo adatto solo a pochi, solo agli asceti che hanno realizzato l’unione con la dea ed hanno eliminato gli attaccamenti ed i desideri mondani (secondo quanto insegnato anche dal Buddha, il non attaccamento per l’esistenza ciclica: questo atteggiamento mentale non ha nulla a che vedere con il desiderio di morire e col suicidio, come molti occidentali erroneamente credono).
La maggioranza delle persone è spaventata dalla grandezza di Kali Ma, dal contatto diretto con la morte, dai roghi crematori: sono moltissimi quelli che preferiscono pregare e meditare la dea in tempio, dove la realtà è espressa come simbolo piuttosto che come verità tangibile.
Il culto si pratica indifferentemente nelle proprie case, nei templi o nei santuari, anche ai bordi delle strade; si prega Kali di concedere cibo per sfamare la famiglia, di proteggere i figli, di concedere la liberazione dall’esistenza di miseria e di avere la grazia della devozione: l’essenza della dea non cambia, sia che si guardi Kali Ma come distruttrice o come protettrice, sia che la si preghi in un cimitero o in un tempio.
La domanda che sorge spontanea è: perché qualcuno dovrebbe desiderare un culto per una dea distruttrice? Secondo il Tantra una disciplina spirituale praticata in un terreno di cremazione può portare rapidamente al successo: chi medita accanto alle conseguenze reali della caducità della nostra esistenza riesce a trascendere molto più rapidamente la visione dualistica della realtà che non chi è distratto dai lati mollemente piacevoli della vita, sviluppando in fretta una rinuncia al samsara e la pacificazione della mente.
Kali Ma è una delle forme di Dio più fraintese, la maggioranza degli occidentali la percepisce come orribile ed assurda, ma dimentichiamo che forse molti dei nostri simboli potrebbero fare lo stesso effetto agli Hindu.
Mentre un cristiano sa che esiste un Dio che è il Bene ed un Diavolo che rappresenta il Male in tutte le sue forme, un hindu crede in un Potere Universale che va al di là del bene e del male, e Kali è l’immagine completa di questo Potere, essendo sia la Madre Benigna sia la Madre Terribile; crea e nutre, poi uccide e distrugge. Lei può vedere il bene ed il male, ma vede che in realtà non esiste nulla di reale; ciò che percepiamo tutti noi è in realtà il velo di Maya, l’illusione che si stende sul potere della Madre Divina, poiché Dio non è né buono né cattivo ma va al di là delle coppie degli opposti che costituiscono gli aggregati di questa esistenza relativa.


Bibliografia: wikipedia (en, fr, it); www.kalimandir.org; Massimo Izzi: Il dizionario illustrato dei mostri, Gremese, 1989.