Quando fu abolita la nobiltà, il 23 giugno 1790, la popolazione della Francia contava circa 27 milioni di persone. I nobili, emigrati compresi, erano circa 9000 famiglie, per un totale approssimativo di 140000 persone, ossia poco più dello 0,05% della popolazione. Andando più nello specifico, la nobiltà di corte contava circa 300 famiglie, non di più la magistratura, mentre l’aristocrazia della finanza non arrivava ai 200 nomi; le famiglie che dominano le province ma evitano Versailles sono circa 600; quelli che sono di nobiltà oscura ma s’illustrano nelle arti e nelle lettere sono circa un centinaio: in tutto fanno circa 1500 famiglie, sulle 9000 di cui sopra, che governano e amministrano la Francia, ne dominano la vita di società e orientano la cultura del XVIII secolo.
La nobiltà è terriera. I titoli sono quelli dei feudi di dignità, eretti dal Re (ducati, marchesati, contee, viscontee, baronie, castellanie) a profitto di coloro che vuole favorire. Se i gentiluomini sono ricchi risiedono poco nelle loro terre, se sono poveri vivono male dei pochi redditi delle loro terre.
La nobiltà è guerriera, ma non è soddisfatta delle carriere militari.
I gentiluomini poveri preferiscono la propria miseria alla derogazione.
Il secondo ordine è un’istituzione vetusta, erosa dal tempo, demodé, tuttavia racchiude un’élite impetuosa e giovane. Nel XVIII secolo si può essere volontario a 13 anni, colonnello a 17, consigliere al Parlamento a 18, maître de requêtes a 20, consigliere di Stato a 28, maresciallo di campo a 29, luogotenente generale a 32, Maresciallo di Francia a 39, ministro a 46.
La Nobiltà è costituita dalle diverse nobiltà provinciali che muovono da un grande feudatario, da ordini di cavalleria, da reggimenti. Alcuni storici del Medio Evo considerano nobile ogni persona che portasse il titolo di cavaliere o di scudiero; la cavalleria che appare attorno al XII secolo è all’origine una popolazione al servizio delle grandi famiglie derivanti dall’aristocrazia carolingia e proprietaria di vasti domini fondiari. Una conseguenza di questo è uno degli assunti per cui ciò che caratterizza la condizione nobile è l’interdizione di esercitare un’attività utile o di profitto, che si tratti della coltivazione a proprio vantaggio delle terre dei propri domini che invece si ha l’obbligo di dare in concessione, di commercio, di banca o anche di uffici come notaio, procuratore, usciere, sotto pena di derogazione (ossia di perdita della nobiltà). L’impiego nobile non è remunerativo ma oneroso, non realizza prodotti o guadagni, serve il signore o il Re, ossia l’interesse pubblico, la giustizia e il buon governo. Per finanziare questi servizi il nobile ha dei redditi nobili, ossia i diritti signoriali come il censo, il reddito di uffici nobili o le pensioni reali. Fino al XV secolo non era soltanto il Re a poter nobilitare qualcuno, ma anche un grande feudatario poteva armare cavalieri; alcune città che avevano cariche nobilitanti, come quelle dei Capitoli, ma erano necessarie la conferma della Corona e la registrazione al Parlamento.
Esercitare una qualsiasi attività derogante, ossia di quelle che normalmente erano riservate al Terzo Stato, privava per sempre un nobile e tutta la sua discendenza della qualità di nobiltà, ma specialmente in Bretagna vi era la possibilità di chiedere e ottenere lettere di “nobiltà dormiente”, ossia di essere sospesi per un periodo da stabilire dalla nobiltà per poter esercitare quelle attività che altrimenti ne avrebbero comportato la perdita definitiva: in questo modo una famiglia avrebbe potuto rimettersi in sesto finanziariamente. In realtà i nobili non si astenevano mai così rigidamente dalle attività commerciali, giacché un gentiluomo di campagna trattava tranquillamente il prezzo dell’acquisto di un cavallo alla fiera; per contro, il giovane e ricco colonnello di buona casata poteva di certo permettersi di acquistare un purosangue senza tirare sul prezzo, ma a Versailles mercanteggiava il proprio avanzamento: favorite, ministri, segretari e quant’altro non conosceranno che le sue sollecitazioni continue. Contiamo anche delle attività non deroganti: l’agricoltura, più o meno tollerata secondo le province, l’arte vetraria, lo sfruttamento minerario e la metallurgia; così come alcune attività marittime legate al commercio, come l’armamento navale.
Un assunto basato su un errore molto comune ma molto diffuso è che nobile debba sempre titolato. In realtà vi sono molti eccellenti gentiluomini che non portano alcun titolo. Coloro che si dicono marchesi, conti o baroni non hanno spesso che dei titoli di cortesia. Tranne l’eminente privilegio dei duchi non c’è gerarchia nei titoli: senza questo, il visconte de Turenne, dell’illustre casata di Bouillon, sarebbe stato inferiore a qualsiasi marchese di Carabas. Infine, contrariamente ad un’opinione erronea, i titoli in regola sono l’appannaggio della nobiltà di toga o dei finanzieri piuttosto che dei gentiluomini dei manieri.
Un nobile è sempre, per certi versi, sotto sorveglianza. Il fisco, il governo, l’amministrazione, lo controllano; le Cour des Aides sorvegliano il prelievo fiscale, i fermier del Dominio prelevano il diritto di franc-fief (ossia la tassa che un non-nobile, un roturier, pagava per poter possedere un feudo con concessione e dispensa del Re, feudo che quindi non era sottomesso a nessun genere di servizio nobile). Luigi XIV indisse due grandi verifiche generali dei titoli di nobiltà, nel 1666-1674 e nel 1696-1727, volte a eliminare gli usurpatori, ma furono parzialmente senza esito. Il tutto consisteva nel sottomettere al genealogista reale tutte le pezze giustificative che potevano provare l’appartenenza al corpo della Nobiltà: atti, lettere patenti, contratti e quant’altro venivano inviati a Parigi, o portati di persona con le conseguenti spese, e attendere con infinita pazienza il responso; il servizio del genealogista è molto costoso, ma è la chiave necessaria per poter avere accesso sicuro a determinati incarichi, o per la presentazione a Corte: ma il servizio del re d’armi certifica solo l’autenticità dei documenti, per il resto è necessario faire ses preuves, ossia provare l’anzianità della nobiltà che si possiede. Per l’ammissione all’Ordine dello Spirito Santo sono richiesti i quattro gradi, ossia di avere almeno padre, nonno, bisavolo e trisavolo nobile; per un gentiluomo povero di campagna le prove di nobiltà sono una sicurezza, una sorta di promozione: acquistano la possibilità che i loro figli possano ricevere delle piccole pensioni dal Re, o iniziare una carriera come paggi. Il sistema dei gradi di nobiltà è più, per così dire, democratico di quello dei quarti usato negli altri stati: con i gradi si guardano solo gli avi in linea paterna, e un matrimonio o più con persone di condizione inferiore non influenzano in nulla le prove; al contrario avere i quattro quarti di nobiltà significa che tutti e quattro i nonni devono essere nobili, gli otto quarti richiedono tutti i bisnonni, i sedici quarti tutti i trisavoli, e così via. Il conto per gradi privilegia solo l’antichità della nobiltà di una famiglia, poco importa se un duca sposa una pescivendola. Tra le famiglie più antiche contiamo i Rochechouart, che fanno rimontare la loro genealogia ai visconti di Limoges, e sono nominati nelle cronache fin dall’anno 980, e gli stessi Borbone. Gli altri sono di nobiltà cavalleresca (prove risalenti a prima del XV secolo aventi lo stato di cavalleria o militare), di antica estrazione (prove risalenti al massimo al XV secolo) o di estrazione (prove risalenti al massimo al XVI secolo); pochissimi discendono veramente dai Crociati.
Le famiglie nobilitate (tramite lettere patenti, o cariche municipali, uffici di toga o cancelleria) hanno un’età variabile; ad esempio, i Voyer d’Argenson che risalgono al 1375 sono una famiglia più antica (e peraltro più famosa) di molte d’estrazione che risalgono al 1480 o al 1510, ed ecco che si fa strada un criterio che può rinforzare o inficiare il dato dell’antichità: la notorietà. Bernard Cherin, l’incorruttibile genealogista di Luigi XVI, contava cinque fattori in ordine decrescente di importanza: l’antichità della famiglia, i servizi, gli impieghi, le parentele e i possedimenti. Quando Cherin scrive che “La famiglia o casata di A… è di antica nobiltà e prova la sua filiazione dal 1339; ma, dopo quest’epoca fino all’inizio dell’ultimo secolo, non si vedono né servizi, né impieghi, né matrimoni di spicco, e solo qualche piccolissimo possedimento” stabilisce un criterio molto semplice per definire l’importanza di una famiglia. Questi A… che lui riporta avranno sicuramente diritto a richiedere gli onori della Corte, ma restano di scarsa importanza; famiglie come i Montmorency hanno tutti i requisiti possibili e immaginabili; ai Villeroy, ai Lamoignon, ai Potier de Gèvres manca solo l’antichità, ma il loro modo di viere li mette ai primi ranghi della società.
L’idea di una gerarchia dei titoli nobiliari, ossia che un barone sia per forza meno importante di un conte, è falsa: la nobiltà risponde ad altri criteri per stabilire l’importanza di qualcuno, come si è visto. Vi è un sicuro privilegio dei duchi (Pari o no), che sono secondi per importanza solo alla Famiglia Reale e ai Principi del Sangue: questi portavano spesso titoli come conte o duca, ma erano prima di tutto eredi possibili della Corona, e i loro titoli erano per lo più simbolici, di pura cortesia e venivano in genere distinti col nome del loro appannaggio, ossia quelle terre della Corona che erano assegnate loro a titolo vitalizio come fonte base di reddito.
I principati sono rarissimi in Francia, in linea di principio non esistono principati salvo poche terre allodiali, ossia possedute in piena proprietà senza alcun vincolo feudale; esempi possono essere Charleville, Orange, Enrichemont, Yvetot; altri, come il titolo di principe di Marcillac tradizionalmente assegnato ai il primogenito dei duchi di La Rochefoucauld, oppure il titolo di principe di Poix per la famiglia de Noailles (Poix en Picardie non è mai stata eretta in principato) sono puramente di cortesia. In Francia esistono anche due Delfinati: quello del Viennese fu riunito alla Corona nel 1349 quando l’ultimo titolare, Humbert II de La Tour du Pin, lo cedette al Re a patto che l’erede al trono fosse da allora chiamato Delfino; e quello d’Alvernia, che entrò nel ramo dei Bourbon-Montpensier col matrimonio di Luigi I de Montpensier con l’ereditiera Jeanne de Clermont-Sancerre, terra arrivata poi agli Orléans tramite la successione della ricchissima Grande Mademoiselle, cugina del Re Sole.
Un’altra categoria è quella dei principi stranieri, ossia casate che possono essere di origine straniera ma che sono naturalizzati in Francia; il termine “straniero” s’intende “Non del sangue di Francia” e non come “immigrato di lusso”. Parliamo di nomi come Cléves, Lorena-Guisa, Gonzaga-Nevers, Savoia-Nemours, Rohan, La Tour d’Auvergne, Savoia-Carignano, Grimaldi; soprattutto le famiglie i clan dei Rohan e dei Bouillon hanno avuto diatribe di precedenza con i duchi-pari, cercando di infilarsi tra loro e i Principi del Sangue nelle questioni di etichetta, oltre ad ottenere altri privilegi.
I sovrani in esilio, come Giacomo II Stuart e sua moglie Maria Beatrice di Modena, godono di un trattamento protocollare a parte, ma sovente erano ospitati “in incognito”, ossia sotto nomi fittizi per evitare problemi diplomatici.
In ogni famiglia sarà sempre uno e uno solo, a portare il titolo: la persona che di solito è chiamata “Capo di nome e d’armi”; i cadetti adottano in genere lo stesso titolo, o un titolo inferiore aggiungendo il proprio nome di battesimo tra il titolo e il nome di famiglia: sarà un titolo di cortesia, utile solo per un uso mondano ma assolutamente nulla sul piano giuridico e amministrativo. In altri casi i cadetti prendono il nome di una qualsiasi terra della famiglia (salvo poi pensare di farsele attribuire a pieno titolo tramite regio assenso), per la pura comodità di distinguere in società un figlio dall’altro, e non chiamarli tutti “figlio numero X del marchese del Grillo”. Poi, se il caso, la bravura di guadagnarsi degli onori, o un matrimonio qualsiasi faranno cadere addosso a quel figlio un’altra terra con un altro titolo lui potrà scegliere di cambiare: il conte de Genlis iniziò a farsi chiamare marchese de Sillery quando ereditò la terra dalla nonna, per esempio.
C’è tuttavia un caso in cui il titolo si può declinare, ed è l’unico autorizzato: il figlio maggiore di un nobile titolato e pari ereditario riprende il titolo, mentre i cadetti possono prendere il titolo seguente nella gerarchia, e farlo in via ereditaria.
Le donne seguono la condizione del marito, la sola eccezione erano le donne insignite di una parìa femminile, come m.lle de La Valliére, duchessa-pari di Vaujours, oppure m.lle de Combalet, nipote del cardinale de Richelieu, duchessa-pari d’Aiguillon: tra le altre cose, godevano dell’appellativo Madame anche se non erano sposate.
Le rare parìe femminili furono soppresse da Luigi XIV; e sottolineiamo che una parìa non è un titolo di nobiltà ma un ufficio della Corona