Cara Maria Clotilde a seguito del tuo post sul gioiello appartenuto a Carolina Murat, ho fatto alcun ricerche, ma non ho trovato nulla a riguardo; certo é che se dovessi trovare qualcosa non esiterò a pubblicarla.
Ti ringrazio Elena, come sempre, in quanto stimolato dal post di Maria Clo.., ho letto con interesse quanto hai postato su Carolina nel seguente post, di cui riporto il link:
#entry317947358, in aggiunta a quanto presente a pag.19,
#entry312539928.
A tal proposito vorrei aggiungere quanto ho trovato su
Carolina Murat, soffermandomi sui gioielli, come é ovvio.
Il gruppo di gioielli, conservati nel Museo Napoleonico di Roma, appartennero a Carolina Bonaparte, dopo di che passarono alla figlia Letizia che era andata sposa a Guido Taddeo Pepoli marchese di Bologna e conte di Castiglione nel 1823. Dagli eredi Pepoli passarono al governo fascista e da Benito Mussolini stesso furono donati tra il 1939 e il 1942 al Museo. (Butazzi - Zanni 1986, p. 72). Black 1973,p.238.
I gioielli appartenuti a Gioacchino Murat e a Carolina Bonaparte, ora in una collezione privata calabrese, aggiungono invece un nuovo capitolo alla storia dell'oreficeria dell'inizio dell'Ottocento. Le poche notizie connesse ad alcuni di questi pezzi, unitamente a quelle riguardanti i gioielli di provenienza murattiana, conservati nel Museo Napoleonico di Roma, li pongono come oggetto di attenzione non solo per la loro bellezza, sono tutti di ottima qualità, ma anche per la cornice storica in cui devono essere collocati.
I due gruppi di gioielli, quelli della collezione calabrese e quelli del Museo Napoleonico, appartengono ad un arco cronologico di circa vent'anni e testimoniano le tipologie più comuni in uso tra Sette e Ottocento, la parure, che si era affermata nel secolo XVIII, continuava ad essere usata, anche se con caratteri leggermente diversi, all'inizio del successivo; quando l'abito, che rievocava, nelle forme sciolte, nei tessuti leggeri, nella profonda scollatura e nella vita alta, quello classico, necessitava di un corredo di gioielli che vi si adattasse. L'adesione totale di Napoleone a questo stile e il rinnovato fasto della corte dettero nuovo impulso permettendo ai gioiellieri di sbizzarrirsi, finalmente, dopo la repressione subita a causa dei rigori rivoluzionari giacobini.
Forse proprio questo rigore, parallelamente alla riscoperta dei gioielli classici, fece nascere l'interesse per i materiali 'alternativi', non tanto perché meno preziosi, ma perché privi di quelle caratteristiche che avevano improntato gli ornamenti dei due secoli precedenti. Solo nelle parures da sera riappaiono, infatti, le pietre preziose e, in particolare, il diamante, che aveva trionfato in Francia, e poi nel resto d'Europa, fin dall'era del cardinal Mazarino nel XVII sec.. Dopo la rivoluzione, Napoleone aveva rivalutato questa pietra, utilizzandola per i gioielli dell'incoronazione (furono smontati i gioielli borbonici) e richiamando, a questo scopo, gioiellieri in auge presso gli ultimi re francesi, la cui abilità fece superare al futuro Imperatore ideologie politiche che potevano contrastare con queste scelte.
I preziosi conservati in calabria appartenevano a Gioacchino Murat fino al momento dello sbarco, avvenuto domenica 8 ottobre del 1815 sulla spiaggia di Pizzo Calabro. Gli importanti reperti ora esposti nella provincia di Reggio Calabria, facevano parte di un insieme di valori che Murat portava con se.
A tal proposito narrano le cronache che " (... il Re era vestito di un abito blu. Bordato d’oro al colletto, sul petto e alle tasche; aveva un pantalone rosso, stivali speronati, una cintura alla quale erano infilate un paio di pistole, un cappello guarnito di piume, il cui cordone era formato da 22 diamanti che potevano valere ciascuno mille scudi; infine sul braccio sinistro portava arrotolata la sua antica bandiera reale...).
C'è anche da evidenziare che a bordo della piccola flotta capitanata dal maltese Vincenzo Barbara, nominato Ammiraglio da Gioacchino Murat, vi era un consistente tesoro di guerra del valore di tre milioni del periodo ma anche quanto viene citato da Domenico Pisani: (... Fu in queste drammatiche circostanze che Murat, aperta una borsa colma d'oro e di preziosi, lanciò numerosi gioielli verso la popolazione inferocita...).
A seguito del tradimento da parte del Barbara, che fece vela verso il largo facendo rotta verso l'isola di Malta, del consistente tesoro non si seppe più nulla, così come dei ventidue brillanti che ornavano il cappello che indossava Gioacchino Murat al momento dello sbarco.
Gli stessi vennero strappati da un certo Fortunato Sardanelli che li consegnò successivamente al capitano della guarnigione borbonica Trentacapilli: poi il nulla fino a quando, nel 1968, lo studioso Aldo Peronaci poté esaminare quei gioielli di persona, anche se le prime notizie a riguardo tali reperti si hanno grazie ad un resoconto da parte di Colonna d'Ornano pubblicato in data 21 maggio 1816. C'è da evidenziare che i gioielli sono custoditi ancora nei loro involucri originali, così come nella tabacchiera d'oro, cesellata e smaltata, è ancora oggi, contenuto il tabacco da fiuto ripostovi da Murat nel 1815.
Così come, conservata nell'astuccio originale, è ancora la parure composta dagli orecchini sui quali sono scolpiti i profili di Marte e Venere, e da un collier con due pendenti su uno dei quali risaltano, sovrapposti e riconoscibili, i profili di Gioacchino e Carolina e sull'altro la testa di Giove.
L'
orologio guarnito di brillanti, già postato da Elena, reca sul verso il ritratto di Carolina Bonaparte e sul quadrante la firma dell'orafo Abraham Colomby. Poteva essere caricato solo per mezzo della minuscola chiave legata al sigillo della regina che è composto da due grossi topazi montati in un castone d'oro, lavorato a granulazione, sui quali sono incise le scritte «Sans epine» e «Mon bien aimè», quest'ultima sormontata dalla lettera maiuscola «C» , iniziale di Carolina. Ritornando all'orologio risulta, dopo attente ricerche storiche, che lo stesso sia stato realizzato dall'orafo sopra menzionato, tale Abraham Colomby che aveva il proprio laboratorio artigianale ubicato proprio nella capitale parigina in rue de la Paix. A tal proposito c'è da evidenziare che (...nella stessa strada ha sede oggi l'antica oreficeria Meller, che in una pagina del libro dei clienti dell'anno 1806, annovera diversi acquisti in gioielli di «S.A.I. et R. la princesse Murat», tra cui «un collier et boucles d'oreilles» e «2 cachet anglais»...). L'orologio da tasca in oro, risalente all'ultimo decennio del XVIII secolo, è caratterizzato da una serie di applicazioni di brillanti e smalto ed ha un diametro di 4 cm. Sul quadrante dell’orologio è raffigurato il volto della regina di Napoli Carolina che indossa un cappello del periodo. L’orologio era contornato da diamanti (ora in parte saltati). Il sigillo e l'orologio venivano probabilmente tenuti appesi, almeno al momento in cui erano stati fatti, ad una "chateleine", cioè una piastra di metallo, più o meno lavorata o preziosa, che veniva tenuta di abitudine alla cintura per appenderci, oltre l'orologio, altri strumenti di utilità. Il sigillo privato di Carolina Bonaparte risale al primo decennio del XIX secolo.
L'altro pezzo riguarda la
tabacchiera, di manifattura parigina, dalla forma rotonda e smaltata e caratterizzata da una corona circolare di arabeschi. La stessa è decorata lungo le cornici di smalto turchese, azzurro e bianco a formare foglioline lanceolate che si pongono a zig zag, intercalate a palmette. Gli stessi smalti ornano il centro del coperchio formando una sorta di grande motivo elaborato con mezze rosette all'interno di ogni lobo. Questi decori e, particolarmente, queste tonalità di smalti sono tipici del repertorio neoclassico. Da notare che all'interno della stessa tabacchiera vi è ancora conservato la polvere di tabacco usata da Gioacchino Murat.
Ritornando al
collier che presenta le effigi dei due sposi intagliati a forma di cammeo unitamente ad un altro girocollo con un cammeo raffigurante la testa del dio romano. La tipologia della lavorazione riflette quella del periodo e, come afferma il "Pisani", l'abitudine di Carolina di rifornirsi di gioielli in Francia e l'aggiornamento sulle mode contemporanee, indurrebbero a pensare che il collier sia stato eseguito a Parigi. Questa consuetudine è confermata anche dagli altri gioielli del gruppo come l'orologio che reca la firma del gioielliere Abraham Colomby. Completano la parure due
orecchini che raffigurano un volto femminile finemente circondato da perle. Sia gli orecchini che il collier sono custoditi alla data odierna nell'astuccio originale. Per quanto riguarda le dimensioni il collier ha una lunghezza di centimetri 59, gli orecchini centimetri 3.
Sulla custodia dei gioielli prima descritti bisogna ricordare la figura di Giuseppe Farao, alto graduato sotto l'amministrazione murattiana, nato il 22 dicembre del 1773 da Gregorio e da Caterina Rodio. I Farao furono tradizionalmente agenti della famiglia Ruffo, in pratica trasmettendosi l’incarico di padre in figlio, e per conto di questa amministrarono per circa un secolo il feudo di Maida, che, ceduto dai Caracciolo a Marcantonio Loffredo nel 1607, venne acquistato nel 1690 dal cardinale Fabrizio Ruffo.
Giuseppe Farao, pur appartenendo a famiglia molto legata ai Ruffo di Calabria, duchi di Bagnara, manifestò un atteggiamento spiccatamente filofrancese, e fu un fervente sostenitore del regno murattiano. Dopo l’esecuzione di Murat a Pizzo, si premurò di raccogliere i gioielli che erano stati sottratti al Murat probabilmente nel corso della cattura e durante la prigionia. La famiglia Farao si è estinta con la scomparsa dell’ultimo discendente, Francesco Farao, nato nel 1856 e deceduto il il 4 novembre del 1945.
Fonte: “Storia dei gioielli di Murat in Calabria", "Gioielli per una Regina", Lo sbarco di Gioacchino Murat a Pizzo", Napoli, Electa, 1996.
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In riferimento a quanto pubblicato a pag.18
#entry312539928pubblico le immagini della parure completa dei gioielli mosaico di cui tu hai postato solo la collana.
Per tradizione questo pezzo, parte di un set, si ritiene sia appartenuto a Carolina Murat (1782-1839), regina di Napoli. La loro scatola in pelle è timbrata con un incoronato 'C' in oro.
Prove documentali negli archivi dell'Opificio a Firenze e negli archivi di Napoli suggeriscono che questa parure, o un insieme di gioielli, possono essere state prodotte in uno di questi centri; dove era d'uso la tecnica di mosaico "Hardstone" emersa a Firenze, dove Ferdinando de 'Medici, Granduca di Toscana, fondò il Gran Seminario Ducale (Opificio delle Pietre Dure) nel 1588. Si opera ancora oggi sotto il Ministero Italiano per i Beni Culturali.
Sir Arthur Gilbert e sua moglie Rosalinde hanno formato una delle più grandi collezioni d'arte decorativa del mondo, tra cui argento, mosaici, ritratti in miniatura in smalto e scatole d'oro. Arthur Gilbert ha donato la sua straordinaria collezione di Gran Bretagna nel 1996.
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Le foto fanno parte dell'archivio fotografico del Circolo Culturale "L'Agorà" di Reggio Calabria.
SI INFORMA inoltre, e non per ordine d'importanza, che le se stesse sono state pubblicate a seguito di una manifestazione culturale, organizzata in data 13 ottobre 2008 ed a tal proposito si inserisce
il link di tale pagina:
www.circoloculturalelagora.it/murat_08.htmReggio Calabria, venerdì 2 ottobre 2015, ore 11:56
f.to Giovanni AIELLO (Presidente/Rappresentante Legale Circolo Culturale L'Agorà)
Edited by LadyReading - 4/10/2015, 18:04