CITAZIONE (Cora84 @ 27/4/2009, 14:37)
La Craveri è una scrittrice di razza...
si ma i libri li leggono gli uomini e non i cavalli o i cani, gatti, pappagalli.
Ora ho capito tutto sulla Craveri, suo nonno era Benedetto Croce. Ecco da dove deriva la sua meringosa fama al grasso idrogenato della sua prosa souflè alla fragola rabarberizzata.
E c'è poco da stupirsi che il suo libro sia in classifica al fianco di libri flacidi come dice l'intervistatrice.
La Craveri è donna astutissima profonda conoscitrice della sua materia e perfetta dispensatrice del suo sapere su questo concordo in pieno, peccato che il suo ambito di studio verta su persone, che come dice nella intervista, non contino un cavolo.
Cmq per vostra gioia vi posto un suo intervento ad un convegno di storici:
BENEDETTA CRAVERI
SALONS FRANCESI E SALOTTI ITALIANI:
PROPOSTE DI CONFRONTO
Il mio campo di ricerca è quello della letteratura e della cultura francese d’antico regime, so pochissimo dei salotti italiani sia antichi che moderni, e ho seguito con un interesse da neofita le relazioni che si sono succedute oggi. Non solo ho imparato moltissimo, ma alcuni degli interventi mi sono stati d’aiuto per mettere a punto qualche riflessione sul mio attuale argomento di studio, che è incentrato sulla civiltà mondana francese tra xvii e xviii secolo.
Un solo disappunto ha turbato la mia felicità di francesista in vacanza: la constatazione che il termine salonnière (orribile neologismo, coniato negli ultimi decenni nelle università americane, e che gli studiosi francesi si guardano bene dall’utilizzare) sia diventato di uso corrente nel linguaggio degli storici. La parola salon, nell’attuale accezione di salotto, fa la sua comparsa solo alla fine del Settecento, per poi imporsi nel secolo successivo. Fino a quel momento ci si serviva del termine ruelle, o si designava il rito per eccellenza della socievolezza, il ritrovarsi insieme per conversare (dal latino conversari, convergere), non già facendo riferimento al luogo di ritrovo, bensì alle persone che vi si incontravano. Non si parlava, dunque, di salotti, ma di assemblées, di cercles, di compagnies.
La prima cosa che mi ha colpito ascoltando le relazioni di oggi, e che vorrei qui sottolineare, è la diversità dei tratti costitutivi che contraddistinguono la sociabilité francese da quella del nostro paese.
Mentre l’Italia è divisa in tanti piccoli stati e le sue pratiche sociali continuano a essere connotate, anche dopo l’unificazione del paese, da tradizioni cittadine e regionali diverse, la civiltà mondana francese si pone, al contrario, fin dall’inizio, sotto il segno della continuità, e costituisce assai presto uno degli elementi distintivi dell’identità nazionale. E mi sembra che ci si debba ugualmente soffermare su un ‘altra differenza strutturale importante, emersa indirettamente dagli interventi di oggi, quando si è fatto più volte riferimento alla presenza in Italia di un doppio modello di socievolezza, l’uno curiale, l’altro cittadino, l’uno aristocratico, l’altro borghese. Vorrei, infatti, precisare che entrambe queste distinzioni sarebbero del tutto svianti per la comprensione della civiltà mondana francese d’antico regime, poiché essa mette radici e si sviluppa al di fuori della corte, e rappresenta — quanto meno per tutto il xvii secolo — un fenomeno di stampo esci usivamente aristocratico.
In contrapposizione alla tesi illustrata da Norbert Elias nella ocicta di corte, che fa della corte il centro di irradiazione delle buone maniere, del buon gusto, della moda, una antica tradizione stoiiografica francese, oggi adottata dalla maggior parte degli studiosi, propone una interpretazione, a mio parere, molto più persuasiva. Seiiza negare l’influenza della corte, ma non facendone un fattore esclusivo, questa diversa chiave di lettura vede nella nuova cultura mondana, che si elabora nei primi decenni del Seicento in seno alla società nobiliare, un fenomeno autonomo e spesso polemico proplio nei confronti della corte. Già il cavaliere di Méré, il primo teoneo dell’honnéteté, rivendicava sotto Luigi xiv l’autorità di giudizio (lei «Gran mondo» sulla «più bella e forse più grande corte della Ierra».
Agli inizi del xvii secolo, le élites nobiliari francesi sono infatti (onfrontate a quella che è stata definita dagli storici una vera crisi di identità. Nel quadro della nuova monarchia dei Borbone, che sotto la iuida del cardinale di Richelieu ha imboccato la strada della centralizzazione e dell’assolutismo, l’antica nobiltà feudale vede ridurre il suo potere politico e militare, non si riconosce più interamente in una corte dove tutto mira all’esaltazione del sovrano. Essa è, dunque, spinta a ritagliarsi uno spazio privato dove celebrare soltanto se stessa e dove mettere a punto uno stile di comportamento inimitabile, che assume presto per lei il carattere di una seconda natura. Da quel momento in avanti, fino alla fine dell’antico regime, sarà il modo di vivere, di parlare, di comportarsi, di divertirsi, di stare insieme a conferire all’ordine dei privilegiati la certezza incrollabile della sua superiorità etica ed estetica.
Per la nobiltà francese, questo nuovo ideale di socievolezza, posto sotto il segno dell’eleganza e del divertimento, era l’inizio di uno sdoppiamento destinato a protrarsi fino alla rivoluzione del 1789. Non potendo, ovviamente, rinunciare a frequentare la corte e a occuparvi il posto che le spettava, da cui dipendevano cariche, pensioni, onorificenze, e non volendo, al tempo stesso, rinunciare alla vita mondana, l’élite aristocratica impersonava dunque, su due scene diverse e contigue, un duplice ruolo, indossando ora le vesti del cortigiano ora quelle dell’uomo di mondo. Un saggio famoso di Erich Auerbach, La corte e la citttì, ha messo in luce la dinamica di questo bipolarismo che doveva concentrare le élites del paese tra Parigi e Versailles. Così, per quasi due secoli, generazioni successive di attori appartenenti a una stessa classe sociale si sarebbero succedute sullo stesso palcoscenico, interpretando gli stessi ruoli e perfezionando uno stile di comportamento e un’arte di vivere in società che si imponevano all’ammirazione di tutta l’Europa. Nel 1721, nelle Lettres persanes, Montesquieu dava conto, sotto forma di paradosso, di questo fenomeno, facendo dichiarare a uno dei suoi viaggiatori persiani: «Si dice che l’uomo sia un animale socievole. Stando così le cose, mi sembra che il francese sia più uomo degli altri, perché pare fatto unicamente per vivere in società» (Lettera ucxxvii).
Nata come tratto distintivo dell’ordine dei privilegiati, la socievolezza aristocratica diventava, infatti, un modello anche per le élites del terzo stato, incoraggiava la grande borghesia ad adottare le stesse regole di comportamento e gli stessi loisirs del mondo nobiliare e consentiva di allargare i confini della vita sociale sulla base di un codice formale e di una retorica comuni.
Tanto Montesquieu che Hume, i quali avevano avuto entrambi esperienza diretta della vita mondana parigina, ritenevano che questa raffinata arte del vivere, basata sulla galanteria, l’eleganza, l’esprit non potesse che fiorire in una monarchia assoluta, in seno a una nobiltà tagliata fuori dal commercio e dalla politica, costretta a uno splendido ozio e tesa a fare della propria vita un’impresa artistica.
Alla luce delle relazioni di oggi, appare chiaro che ciò che differenzia la vita di società francese da quella italiana, facendone un fenomeno unico in Europa, è in primo luogo la sua continuità, potremmo dire la sua unità di tempo, di luogo e d’azione nella lunga durata. A questo bisogna, però, aggiungere la condizione di eccezionale privilegio di cui godono le donne all’interno della società nobiliare francese. E vero che negli interventi di oggi si è ribadito come la presenza delle donne sia un connotato irrinunciabile anche per la tipologia del salotto italiano, ma è un dato incontrovertibile che la assoluta integrazione tra i due sessi nella società aristocratica francese d’antico regime sia un fenomeno unico in Europa.
Non è qui il caso di affrontare un problema vasto e complesso come quello della condizione femminile e, per un quadro d’insieme della situazione francese, mi permetto di rinviare al mio saggio su La civiltì della conversazione (Adelphi, 2002). Mi limito a ricordare che mentre sul piano giuridico in Francia, come nel resto dell’Europa, le donne erano interamente subordinate all’autorità maschile e relegate a una condizione di mortificante dipendenza, su quello del costume e delle usanze le donne della nobiltà francese beneficiavano di un trattamento assai più favorevole. Nel solco di una tradizione cavalleresca che risaliva alla civiltà cortese, in netto contrasto con la morale borghese, la morale nobiliare esaltava le virtù femminili, poneva la donna su un piedistallo, la faceva oggetto di ammirazione e di elevazione spirituale e le conferiva una regalità di fatto sulla vita sociale. Era lei a decidere delle regole del gioco mondano, a insegnare la cortesia e le buone maniere, a decidere dei loisirs che connotavano l’ozio aristocratico, a «fare i gentiluomini». La sua regalità era incontestabile e fragile al tempo stesso, perché affidata soltanto al buon volere maschile, e si basava su un paradosso. Era in virtù degli interdetti che pesavano sulla sua condizione che il gentil sesso riusciva a influire durevolmente sulla cultura francese.
Proprio perché non aveva diritto all’istruzione e allo studio, e le si insegnava a malapena a leggere e scrivere, la donna della nobiltà acquistava un’autorità assoluta in campo linguistico. Nel quadro della politica culturale di Richelieu che mirava, con la creazione dell’Académie franaise e la messa in opera di un grande dizionario, a dotare la monarchia di un francese all’altezza delle sue ambizioni, era infatti alle donne della nobiltà che i lessicografi si rivolgevano per stabilire il «miglior uso» della lingua. Allevate negli appartamenti materni, ignare di greco e di latino, esse parlavano, infatti, il francese più puro, esente tanto dal tecnicismo dei dotti che dalle trivialità del linguaggio popolare, e questo dava origine alla prima e più clamorosa delle contraddizioni che contraddistinguevano la loro condizione. Cittadine dimezzate, le donne che lo Stato e la Chiesa condannavano all’obbedienza e all’ignoranza, imponevano di fatto la loro autorità sulla prima delle istituzioni su cui si basava lo Stato, vale a dire la lingua. Ma non era tutto. Poiché erano loro a decidere dei divertimenti mondani ed erano digiune di studi di retorica, di storia, di filosofia, esse chiedevano in primo luogo alla letteratura di distrarle e di divertirle, e gli scrittori rispondevano alle loro richieste, tenendo conto dei loro gusti e dei loro interessi, creando per loro una vasta letteratura di intrattenimento. Si trattava, oltre naturalmente al teatro, di generi minori, disprezzati dai dotti, come i ritratti, gli aforismi, i mémoires, la letteratura epistolare, i romanzi, ma che avrebbero presto generato dei capolavori, diventando altrettanti punti di forza della tradizione letteraria francese moderna. Ed erano naturalmente le donne a decidere delle regole della cooptazione mondana e a presiedere al rito centrale della nuova socievolezza, la conversazione. Metro di misura del talento mondano di ciascuno, la conversazione era al tempo stesso un esercizio collettivo dalle funzioni molteplici. Era un codice di distinzione e di coesione sociale che doveva permettere una comunicazione armoniosa, svagare, divertire, istruire, che costituiva una vera e propria «scuola del mondo», che suppliva alle carenze di un’istruzione lacunosa e di un’informazione sottoposta a un rigido sistema di censura.
Non è dunque un caso che Descartes dichiarasse, nel 1637, di avere scritto il suo Discours de la métbode in francese e non in latino e di avere rinunciato a trattare a fondo il problema troppo difficile dell’esistenza di Dio per poter essere letto anche dalle donne, perché le donne erano diventate per metonimia il simbolo della società mondana. Per lo stesso motivo, circa vent’anni dopo, Pascal scriveva le Provinciales in francese e non nel latino canonico della teologia, per conquistare al giansenismo la simpatia e l’appoggio dei mondani. E su questo vorrei concludere, facendo un’ultima osservazione.
Se Descartes e Pascal tenevano tanto ad avere dalla loro parte un pubblico aristocratico che ostentava un rigoroso dilettantismo, è perché il piccolo manipolo di privilegiati oziosi a cui andavano le loro attenzioni aveva preso le distanze sia dal potere politico (la corte), sia dal potere religioso (la Sorbonne), sia da quello della République des lettres e si giudicava capace di decidere da solo quel che doveva pensare in materia di gusto, di letteratura, di filosofia, di psicologia, di morale, di religione e — a lungo andare — anche di politica. Un pubblico che sarebbe andato rapidamente crescendo, che avrebbe inciso sempre più nella vita culturale, e nel cui seno avrebbe preso sempre più chiaramente forma l’opinione pubblica.