A Parigi continuava a piovere da alcuni giorni, e quel 19 aprile 1777 non aveva nessuna voglia di sfigurare con i suoi predecessori; sembrava che dicesse tra sé e sé: “Oh che bello, sono tutto bagnato”. Il fatto è che tendeva a uscire dal seminato dispensando in giro anche tuoni, lampi e fulmini come se avesse sentito la mancanza dello spettacolo dei fuochi d’artificio della fiera di Saint-Germain.
Una berlina procedeva con lestezza nella bruma mattutina delle campagne dell’Île-de-France, mentre il sole timido lambiva con i suoi raggi la terra ancora zuppa dalla pioggia della sera prima; al suo interno tre figure catturavano la curiosità di coloro che la incontravano sul passaggio, ma quello che gli astanti non potevano notare era lo stile dell’allestimento dell’abitacolo, che richiamava una Stübe bavarese. Il conte de Mercy era un uomo che sapeva fare bene le cose e aveva pensato a tutto, persino alla colazione degli illustri ospiti. Fodere di velluto cremisino inondavano ogni angolo disponibile, tra gli sportelli erano state appese delle teste di capriolo impagliate alle quali erano legati dei fragranti würstel; la birra alla spina era garantita da una damina di legno scolpito, con le trecce raccolte in due cospicui chignon laterali e un grembiulino disseminato di stelle alpine, che reggeva gagliarda una botticella dalla quale si poteva spillare l’ottimo nettare ambrato e spumoso.
Il Conte von Falkenstein, rigido come il bompresso di una galea, non si curava minimamente di quell’abbondanza divina, a differenza del suo accompagnatore il colonnello conte Ludovico Luigi Carlo Maria Barbiano di Belgiojoso, Imperial Regio ambasciatore a Londra: questi affondava le mani voracemente nella cesta ricolma di opulenti krapfen alla crema; più in basso di loro una cosa si agitava con una furia degna del ciclone Mariuccia: la parrucca del principe von Kaunitz, che il Conte von Falkenstein si era ostinato a portare con sé per avere compagnia correva qui e lì cercando di recuperare tutto lo zucchero a velo che cadeva dai dolci per incipriarsi i boccoli a dovere.
La combriccola arrivò a Versailles tra un krapfen e l’altro. L’Imperatore viaggiava in incognito e non voleva tradirsi, si limitò a osservare il magnifico castello dal finestrino:
- Heilige Scheiße! Kvesto essere più grande di ego di von Kaunitz!
La vista della reggia era talmente stupefacente che perfino la parrucca di von Kaunitz smise di fare fouettés en tournant e rimase ferma fra i due sedili. Ringhiava sommessamente, ma rumore delle ruote sull’acciottolato sovrastava i suoi brontolii. Una volta fermi lo sportello si aprì, una figura magra e vestita di nero s’inchinò fino a toccare il selciato con la testa: il fido abate de Vermond era pronto per condurre Graf von Falkenstein dalla Regina.
- Herr von Frankenstein…
- Falkenstein! - Rispose seccato l’Imperatore.
- Vuol prendermi in giro?
- Nein, io fiaggio come Conte von Falkenstein!
- Allora dice anche “Caunte”…
- Keiner. È “Conte”.
- Beh, perché non è Caunte di Frankenstein?
- Non lo è… È Conte di Falkenstein!
- Capisco - rispose con uno sguardo enigmatico l’uomo in nero.
- Foi dovete essere Fer-Mond…
- No, si pronuncia Vermón.
- Ma mi hanno detto che era FER-mond!
- Beh, avevano torto. Non le pare?
Una volta effettuato il riconoscimento Vermond fece cenno all’Imperatore affinché lo seguisse, i suoi ordini erano di condurlo direttamente dalla Regina ma senza farlo passare per qualsiasi luogo dove i cortigiani avrebbero potuto anche solo scorgerlo; per sicurezza l’abate ritenne opportuno prendere un percorso intricato che nessun altro, secondo lui, avrebbe potuto seguire. Partendo da una porticina piccina picciò, mezzo nascosta dalla tappezzeria, attraversarono una serie di scale e corridoi per arrivare all’Orangerie, di lì al Bacino di Latona, poi tra i boschetti e il Parco della Vittoria per arrivare a Vicolo Stretto sbucando dal lato dell’ala Nord. Il tragitto frastornò un po’ l’ospite, e una volta che furono fermi questi chiese a Vermond, indicando il corpo centrale del castello:
- Toni è là?
- Toni Ellà?
- Là!
- Cosa?
- Toni è là e Gigi è lì
- Ma come teufel parlate?
- Siete voi che avete cominciato!
- Nein, non essere fero!
- Non insisto, siete voi il padrone! - Vermond fece un profondo inchino.
Una volta all’interno della reggia l’abate riprese a gigioneggiare con il dedalo di corridoi, che si facevano sempre più stretti e bui, le porte sempre più piccole fino a quando si fermò e grattò a una di esse. Una voce d’angelo da dietro la porta rispose di entrare: ecco dopo sette anni fratello e sorella si rividero, furono baci e furono sorrisi, poi furono soltanto fleur-de-lys. Passate le lacrime di commozione cominciarono a raccontarsi quello che era successo negli ultimi anni: come Marie-Antoinette avesse sopportato la Du Barry, come l’Imperatore avesse visitato tutti i campi militari, come Maupeou avesse avuto una volta la parrucca piena di mosche, e come l’Imperatore avesse trattato con Federico II, e come Marie-Antoinette fosse riuscita a mettere in equilibrio tre piume sulla testa… ah, che ricordi! Sarebbero stati ore ed ore ascoltare le rispettive storie, ma l’educazione e l’etichetta chiamavano; la Regina portò il suo augusto fratello dal Re che doveva ancora alzarsi dal letto e lo presentò a suo marito:
- Mein Bruder, che grosso piacere!
- Grosso a chi? - disse Luigi XVI stroppicciandosi gli occhi.
- Nein, io folevo dire: “grande”.
- Il piacere è mio, caro fratello… ora vi prego di avere la pazienza di attendere che mi alzi dalla real cuccia.
Il Re si alzò, calzò la parrucca rovescia e si infilò le ciabatte, poi, rincorrendo il paggio per tutta la stanza, tentò di farsi dare un paio di pantaloni. Alla vista di questa scena l’Imperatore guardò la Regina con compassione, lei lo prese per mano e lo accompagnò dagli altri membri della famiglia reale per presentarlo. La prima ad avere il piacere di far l’Imperial Regia conoscenza fu la Contessa di Provenza:
- Hola gazpacho! Muy encantada!
Intervenne il Conte di Provenza con la sua usuale aria saccente:
- Quondo ho parlatto di etiquette spagnola non mi riferivo a questo; pardonnatela Monsieur, la grosse fille ha la maman espagnola e ogni tonto le parte la saragozza!
- Minkia, seguro! Lo diceva sempre Mamita. - punteggiò Madame.
- Ach so! Io capire benissimo; meine Schwester Karolinen, figlia N. 13, afere sposato un mezzo spagnolen e ormai in sue lettere lei salutare me con: “Hola Sancho Panza”!
Usciti dall’appartamento fu la volta dei Conti d’Artois; Marie-Antoinette si incaricò delle presentazioni:
- Madame la Contessa d’Artois, fratello mio.
Dalla grande e piccola scuderia, nonché dalle scuderie della Regina in città, si levarono dei nitriti di cavalli impauriti.
- Graf von Falkenstein. È un onore, Contessa d’Artois.
Questa volta il cielo si oscurò e simultaneamente i cavalli nitrirono di nuovo.
- Heilige Scheiße! Cosa afere cavalli in kvesto posto?
Il Conte d’Artois tentò di distrarre l’illustre ospite:
- Se te tu vòi fa’ una trombatina, te tu ha solo da chiedere: ti presento quattro donnine belline belline! E dopo ci si fa una partitina a scopa!
La Regina, vedendo il fratello un po’ abbacinato dalle maniere libere del cognato, lo prese sottobraccio come in un giro di valzer e lo condusse da Mesdames. Non appena varcata la soglia dell’appartamento dei cognati l’Imperatore disse a mezza voce: “Contessa d’Artois”, e per l’ennesima volta echeggiarono tuoni e nitriti. “Ach, so!”. Arrivarono ad una porta al pianterreno, grattarono come da etichetta, e dall’interno della stanza si udì una voce alquanto inconsueta che chiedeva ed intimava loro di entrare.
- Care Zie,ho l’onore di presentarvi…
- Altolà mia caaaaara, indossate le pattine; le faaaaantesche hanno or ora lucidaaaato il parquet a cera.
- Veneranda Zia, queste a guisa di zampe di papero poco s’intonano con la nuova creazione di M.lle Bertin - replicò Marie-Antoinette indicando delle pantofole in feltro la cui forma ricordava delle zampe d’anatra.
- Straaaano… - ribatté la vecchia Madame Adélaïde - le ha giustappunto creaaaate per il suo novello stile “à la Belle Poule”.
Al che la Regina tolse le sue belle scarpine in tessuto damascato per infilarsi le pantofole indicate dalla Zia senza battere ciglio.
- Oh che carine! E perché io non ho avuto le mie? - chiese con la bocca piena Madame Victoire.
- Le avete aaaaavute, cara sorella - gracchiò Madame Adélaïde.
- Non lo ricordo, ne siete sicura?
- Incrollaaaaabilmente certa, nella stessa guisa del faaaaatto che le avete mangiate duraaaante la Quaresima, eziandio incorrendo anche in un peccaaaato di gola mangiando di grasso.
- Davvero?
- Sì. Avete detto che nel vassoio non trasudaaaavano grasso veruno, eziandio dovevaaaaano essere magre.
Madame Victoire arrossì e si strofinò la bocca per pulirsela dal sugo del tacchino che aveva testé azzannato.
- Non mi avete fermata?
- Erano due giorni che affondaaaaavate i denti nelle braccia del povero abaaaate Maudoux, ho ritenuto acconcio credere che ciò avrebbe saziaaaaaato la vostra fame.
L’Imperatore era sempre più sconcertato da quel che vedeva della famiglia reale di Francia; dopo aver salutato Mesdames fu la volta della giovane Madame Elisabeth.
- Babet, posso entrare?
- Entrate pure sorella – rispose la più giovane sorella di Luigi XVI.
La principessa era seduta su uno scranno, con un cappello di paglia in testa, intenta ad infilare vermi nei suoi ami.
- Cara, cara, cara, sorellina, cara, cara, cara, cara… è meraviglioso fuori… il giardino… oh sorellina, prendetevi pure gioco di me… sì, lo so sono una sciocca, ma sono così… felice… il sole si è già levato, non fa freddo… dio mio, che aria… come cantano gli storni…
- Fatevi una canna, sorellina. Vi farà bene…
- Certo, sto andando a pescare!
L’Imperatore fece un inchino e uscì subito dalla stanza che odorava di pesce stantio. Si girò verso la sorella, e abbastanza stravolto le disse:
- Schwesterlein, che kosa teufel essere kwesta cosa? Foi che vive sempre in kwesto bailamme?
- Questo, fratello mio, è Versailles!
Edited by Mauroº - 2/1/2017, 17:18