| Qualche breve nota sulla mostra. Innanzitutto il luogo: si tratta di Palazzo Fortuny. I palazzi veneziani di solito hanno una sfilza di nomi perché al nome del proprietario originario che edificò l’immobile si aggiungono quelli degli altri proprietari via via succedutisi. Magari non tutti. Sicché ci ritroviamo un palazzo Coccina Tiepolo Papadopoli che ha tre nomi e tanti altri casi del genere.
Nel caso del Fortuny evidentemente, la personalità del geniale ultimo proprietario si è fatta sentire anche nel nome. Comunque fino al Settecento il palazzo fu Pesaro degli Orfei, come testimonia ancora la targa stradale che è posta nella calletta che conduce al campo di San Beneto dove è la facciata principale del palazzo.
Interessante notare che la famiglia d’origine rimase ad abitare nel palazzo fino al Settecento, allorché fu terminata la farraginosa costruzione della Ca’ Pesaro che è di ben altre dimensioni. A un certo punto, sul finire dell’epoca gloriosa di Venezia e soprattutto del potere militare ed economico della Repubblica, si reagì con l’elefantiasi delle costruzioni nobiliari.
Praticamente l’economia fondata all’origine sul commercio con la conseguente protezione militare della marina della Serenissima, il controllo dei territori e l’espansione coloniale, si trasformò in un’economia agricola. Gli ingenti guadagni ottenuti dai commerci furono investiti in sterminate proprietà terriere che garantivano rendite elevatissime ma andavano gestite, non lasciate in mano agli intendenti.
Insomma la classe nobiliare veneziana, come tutte le altre, implose a causa della convinzione che la ricchezza si autoalimentasse automaticamente e che chi era ricco lo sarebbe stato sempre più. A prescindere dal mutamento degli equilibri politici e militari. Oggi accade esattamente la stessa cosa: l’economia di carta ha sostituito quella reale della produzione di beni e servizi, salvo rari casi. Il che matematicamente porterà ad un implosione del sistema. Peraltro evidentemente in crisi. Quanto al mutamento degli equilibri militari basta leggere il giornale per capirlo.
Ma come al solito ho divagato, dunque, tornando alla mostra, va detto che il Fortuny è un posto bello in sé, a prescindere da ciò che è in mostra. Si potrebbe organizzare un’esposizione di paccottiglia cinese e sarebbe bella pure quella. Intanto l’enormità degli ambienti, la luce naturale spesso assente sostituita da sapienti luci artificiali. Ricordo a questo riguardo una mostra di anni fa dedicata a Peter Greenaway che era eccezionale, a parte la genialità e maniacalità del regista. Bastava una luce pulsante o un suono in un ambiente vuoto per creare una situazione onirica.
Poi salendo al piano superiore quello con i finestroni affiancati, la luce si spande come una nuvola di pulviscolo. Ricorda un’affermazione del malaticcio scrittore che componeva la sua monumentale opera su una branda di ferro: “Nessuna camera ha un’atmosfera granulosa, pollinizzata, commestibile e devota come quella del Grand Hotel Cabourg”.
Scritta per la stanza 414 vale anche per il salone del Fortuny. Qualcuno(a) rileverà che pur non essendo un conoscitore di Proust finisco per “sentire” spesso la sua presenza e ne sono influenzato. L’inutilità decadente delle sue atmosfere sfinite è irraggiungibile.
In definitiva la “Divina Marchesa” meritava la mostra. Magari un titolo un po’ meno scontato ché quando si parla di “divini marchesi” il titolare è uno soltanto: l’ineffabile e contorto discendente della Laura angelicata cantata dal Petrarca.
A parte il titolo la mostra è proprio in linea con ciò che la marchesa ha voluto costruire: una vita opera d’arte. Voleva essere un quadro vivente una performance in divenire. Preconizzava già l’artisticità del gesto. Ciò che poi ai giorni nostri è divenuto Arte Comportamentale con le sue istallazioni e performance spesso incomprensibili.
Ma dalla Casati alla Abramovich ne è passata di acqua. Insomma fece la sua scelta: bruciare come una fiamma, dilapidando un patrimonio immenso, finire in miseria e morire a Londra in una stanza dopo aver vissuto di carità, ma rappresentare per tutta la vita un ideale estetico autoreferenziale. E in posti come Venezia, Capri, Parigi che come sfondo non scherzavano.
Grande la signora, come tutti quelli che vissero rappresentando loro stessi l’opera d’arte, con le loro azioni. Lasciando una traccia indelebile nella memoria del tempo.
Edited by Giacomo Girolamo Casanova - 15/10/2014, 13:17
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