Maria Antonietta - Regina di Francia

Maria Josè di Savoia, La bellissima ultima Regina d'Italia

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view post Posted on 4/8/2006, 17:20

Marie-Antoinette

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Ecco la biografia dell'ultima sovrana d'Italia, Maria Josè di Savoia!

Biografia:


Maria Josè Carlotta Sofia Amelia Enrichetta Gabriella di Sassonia Coburgo Gotha, nata il 4 agosto del 1906 a Ostenda,è la terzogenita di Alberto I del Belgio e di Elisabetta Wittelsback, (nipote di Sissi, l'inquieta moglie di Francesco Giuseppe d'Austria), sovrani del Belgio dal 1909 al 1934.

Dalla madre, dicono i biografi, ha ereditato la curiosità intellettuale e l'anticonformismo, qualcuno aggiunge anche "la vena di pazzia dei Wittelsbach", la passione per la musica, mentre dal padre ha ereditato la tenacia, lo spirito critico e l'amore per l'alpinismo. Di indole allegra e spensierata, cresce senza tante imposizioni e coltivando molti interessi: suona pianoforte e violino, pratica molti sport e dimostra grande amore per la lettura. A sei anni suona il pianoforte e a sette si esibisce interpretando Brahams al pianoforte. La corte del padre è una delle più libere dell'epoca, frequentata dai migliori cervelli: Einstein a volte vi suonava il violino accompagnato al pianoforte dalla regina Elisabetta.

Fin dalla nascita il suo destino viene segnato dalla promessa di andare in sposa ad un Re. Quel Re è il figlio maschio di casa Savoia Umberto, figlio di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e della Regina Elena.

Il primo incontro tra Maria Josè e Umberto avviene ai margini della Grande Guerra, quando entrambi sono ancora fanciulli in occasione della visita dei reali del Belgio. I Sovrani del Belgio sono in visita al fronte italiano a Battaglia Terme, vicino a Padova. Maria Josè ha dodici anni e Umberto quattordici. Secondo i cronisti Maria José si innamorò perdutamente di Umberto! Maria José scrisse in seguito di essere stata allevata ed educata nell'idea che un giorno avrebbe sposato Umberto.

Maria José era bellissima, la più bella principessa dell'epoca assieme alla cognata Astrid!
Maria Josè aveva capelli castano-biondi crespi e occhi chiarissimi di color azzurro-verde e per questo veniva chiamata per via dei suoi capelli a riccioli e gli occhi chiarissimi "la negresse blonde avec les yeux de diamants".

Maria Josè studiò in Inghilterra dal 1914 al 1917, quando il Belgio fu occupato la prima volta dai tedeschi, poi in Italia, nel Collegio dell'Annunziata di Poggio Imperiale, presso Firenze, con i figli della migliore nobiltà italiana ed europea. Dicono che sul suo comodino ci fosse una fotografia di Umberto.

Il 7 settembre del 1929, il giovane principe Umberto, al quale si attribuiscono innumerevoli storie, la più famosa quella con la soubrette Milly, e che sembra abbia tentato di rimandare più volte il matrimonio, su preciso ordine del padre Vittorio Emanuele III, chiese ufficialmente la mano della principessa belga. Maria José sembra che disse ai genitori: "Et maintenant c'est faite" ("E ora è fatta"). Il fidanzamento ufficiale con il futuro Re di Maggio avviene il 24 ottobre del 1929, durante una visita del principe sabaudo in Belgio. Lo stesso giorno Ferdinando De Rosa, un giovane anarchico italiano della Concentrazione Antifascista attenta alla vita del principe senza riuscirvi. Sarà condannato a soli cinque anni di carcere per intercessione dello stesso Umberto.

Umberto è un uomo sensibile, ma solitario e taciturno, educato alla più scrupolosa osservanza dei severi protocolli di corte italiani e naturalmente all'obbedienza e alla sottomissione al re; Maria Josè è invece di indole allegra, istintiva, ama la compagnia e negli anni spensierati dell'adolescenza trascorsa in gran parte a studiare in Italia, dimostra di essere una determinata contestatrice anticonformista. Maria Josè arriva ufficialmente in Italia per celebrare le sue nozze il 4 gennaio 1930, tra il giubilo della folla, le ghirlande appese ovunque e gli stemmi sabaudi al fianco di un enorme fascio littorio in ogni angolo di strada. Il cerimoniale d'accoglienza della principessa dura alcuni giorni e prevede fra l'altro, battute di caccia, ricevimenti ufficiali e il saluto delle più alte rappresentanze dello Stato quali Luigi Federzoni, presidente del Senato, Giuriati, presidente della Camera, Turati presidente del Gran Consiglio del Fascismo e Mussolini, capo del governo. I mezzi di comunicazione non parlano d'altro che delle imminenti nozze. Finalmente l'8 gennaio nella cappella Paolina del Quirinale viene celebrato il matrimonio. "Tutta la cappella per l'avvenimento ha subito un'autentica metamorfosi. Sfarzose bardature in velluto rosso con le frange dorate riquadrano preziosissimi arazzi. Sopra l'altare troneggia la quattrocentesca 'Annunciazione' di Guido Reni. Il cardinale di Pisa, Pietro Maffi, chiamato a celebrare il rito, indossa antichi paramenti ricamati in oro, appartenuti ai Medici. Alla destra del presule i troni in damasco rosso con baldacchino, per i sovrani d'Italia e per quelli del Belgio. Tutto intorno le poltrone di velluto con lo stemma sabaudo per i rispettivi seguiti.

Un'ora prima della cerimonia il Quirinale è già preso d'assedio. Sotto gli archi, nel cortile, risuonano le marce militari. Le automobili si fermano davanti allo scalone d'onore, depositano dame e cavalieri, e ripartono in fretta, per far posto alle altre vetture. Su per lo scalone d'onore, scintillano gli elmi e le sciabole degli ufficiali in alta uniforme. Sui cornicioni risaltano le ghirlande di lauro e gigli, volute dalla regina Elena. Ai lati del salone, attraversato da un tappeto rosso, le immense tribune, nelle quali prendono posto dignitari di Corte, generali, ministri, e un numero infinito di dame e damigelle, col capo coperto dai veli bianchi imposti dal protocollo. Il vociare piuttosto diffuso viene interrotto alle 10 dal conte Suardi, maestro delle cerimonie, che, con la frase canonica: 'Le Loro Maestà', annuncia l'imminente arrivo del corteo nuziale, aperto da Maria Josè al braccio di Alberto I. Subito dopo le teste coronate, fa il suo ingresso nel salone Benito Mussolini, sorridente, in divisa e collare dell'Annunziata bene in vista, accompagnato da Giunta, il sottosegretario alla Presidenza.
In barba alle mise che non consentivano movimenti del tutto agevoli, dame e gentiluomini si sbracciano per fare il saluto romano al duce".

La mattina delle nozze un attimo di panico: le maniche sono troppo strette e le braccia della principessa non entrano. La principessa trova la soluzione: braccia scoperte dalla spalla al gomito e guanti lunghi.
Piove: sposa bagnata, sposa fortunata. Allo scambio degli anelli un volo di centinaia di colombe bianche. Poi gli sposi sono ricevuti dal papa.
Tre giorni di pranzi, rinfreschi, balli, celebrazioni folcloristiche e poi il viaggio di nozze: una sosta a San Rossore e poi Courmayeur, ospiti dei Marone Cinzano. Nessuna intimità, la villa è piena di amici, Maria José comincia a temere per il suo matrimonio.

Finiti i festeggiamenti, Maria Josè viene travolta dalla cruda realtà del fascismo: cresciuta in un paese democratico, dove gli ideali di giustizia, di libertà, uguaglianza e difesa dei più poveri le erano stati insegnati dallo stesso re, suo padre, ora si trova a dover subire le malcelate intimidazioni del governo italiano e ad accettare i pedinamenti e la sorveglianza continua dell'Ovra, l'opera di vigilanza e repressione dell'antifascismo.

La Principessa scrisse "Volevano italianizzare il mio nome in 'Maria Giuseppina', perché Maria Josè era troppo straniero per i gusti di Mussolini. I gerarchi fascisti mi chiesero di firmare 'Maria Giuseppina' addirittura sull'atto di matrimonio. Ma io rifiutai. Umberto era imbarazzato, non disse nulla.
Ho sempre continuato a firmare 'Maria Josè' anche se le 'pressioni' non cessarono nel corso degli anni. I giornali, per obbedire al duce senza scontentare neppure la principessa, risolsero il problema chiamandomi Maria di Piemonte".

E scrisse ancora: "Un'altra volta alla reggia di Napoli, dove c'era una meravigliosa sala per i dibattiti, avevo invitato a tenere una conferenza un esperto di civiltà nuragica. Ero stata in Sardegna e volevo sapere di più sulla storia del popolo che, millenni addietro aveva costruito sull'isola quegli strani edifici in pietra a forma di torri. Il relatore era il solo uomo specializzato sull'argomento che fossi riuscita a trovare in Italia. Il giorno prima della conferenza, però, il mio segretario ricevette l'ultimatum del podestà: 'Il dibattito non può avere luogo. L'argomento è in contrasto con i principi del regime. L'unica epoca che merita di essere studiata è quella della Romanità. Chiunque esalta civiltà diverse da quella latina attenta al fascismo'. Quando mi riferirono l'ordine, provai un'ira incontenibile per tanta bestialità".


Dopo una breve residenza nel Palazzo Reale di Torino, il padre li trasferì a Napoli dove Umberto è promosso generale.
Gli sposi vivono gli anni seguenti tra il palazzo reale di Torino, il castello di Racconigi, Napoli, la residenza di Sant'Anna di Valdieri in Piemonte e il castello di Sarre in Val d'Aosta.
Nel 1934 nasce la prima figlia Maria Pia, poi arrivano nel 1937 Vittorio Emanuele, nel 1940 Maria Gabriella e nel 1943 Maria Beatrice.
Maria Pia assomiglia moltissimo al padre, Maria Gabriella e Vittorio Emanuele, invece potrebbero somigliano alla madre (sopratutto Maria Gabriella, anche se la mamma era più bella), e Maria Beatrice ha il volto della madre bambina.
Il suo rapporto con Umberto comunque ha molti problemi. I pettegolezzi sui tradimenti del principe non si contano e non mancano le insinuazioni anche su di lei.

Dopo il suo matrimonio con Umberto, Maria Josè assume il titolo di "Principessa di Piemonte".
Tra un figlio e l'altro, Maria José scala il Cervino (fu la prima donna a scalare il Cervino!), il Monte Bianco e il Monte Rosa, e dichiara che se non fosse quello che è, sarebbe contro tutte le dinastie.

Maria, come membro attivo della Croce Rossa, sfrutta la sua posizione per dare voce alle sofferenze dei poveri e degli ammalati, entrando così in ancora più stretto contatto con gli ingranaggi del potere. Più volte infatti inoltra delle richieste direttamente a Mussolini, il quale più per mostrare l'efficienza del regime che per amore dei deboli, l'accontenta.
Però poi la principessa è costretta a versare all'Opera Nazionale, l'istituzione di Stato, parte delle entrate destinate ai poveri ottenute con aste e concerti di beneficenza.

Nel 1935 l'Italia dichiara guerra all'Etiopia e nel 1936 Maria Josè parte per l'Africa come infermiera della Croce Rossa. Il regime approfitta della presenza della principessa e la erge, suo malgrado, a bandiera della grandezza italiana, anche in campo sanitario, mentre le camicie nere inneggiano alla loro madrina, d'ora in poi la sua presenza sui campi di battaglia verrà sbandierata come adesione al fascismo. In Africa conosce anche quelle persone che dal suo rango non poteva avvicinare a cominciare da Italo Balbo governatore della Libia tessitore di trame (la famosa congiura delle barbette) con cui condivide le opinioni contro il fascismo. Italo Blabo si dichiara scettico per l'evoluzione che ha avuto il regime fascista ed è preoccupato per le sorti dell'Italia, paese dove ormai, egli spiega, la libertà d'opinione è rimasta solo un vago ricordo. Balbo è solo una delle molti voci autorevoli contro il fascismo con cui Maria viene in contatto.

Di vivace intelligenza ed amante della cultura e delle arti, la principessa non si accontenta di lavorare al servizio dei più deboli, ma prende attivamente parte al dibattito intellettuale in corso. Il primo personaggio che fornisce ai risentimenti antifascisti di Maria un'impostazione teorica e sistematica è Umberto Zanotti Bianco, un archeologo fuggito per un certo tempo in Belgio e che, a causa delle sue idee democratiche, costituisce una insidiosa spina nel fianco per il governo fascista. Zanotti Bianco ha tra l'altro fondato l'Associazione per il Mezzogiorno che svolge un'attività umanitaria-assistenziale insieme a quella culturale e Maria pur di salvarla dai tentativi del regime di impedirne lo svolgimento la ribattezza 'Opera Principessa di Piemonte '. Tramite Zanotti Bianco, Maria Josè conosce Benedetto Croce. Con lui si incontra parecchie volte a Napoli dove il filosofo è impegnato politicamente con la sua rivista 'La critica'. Benchè Croce sia senatore del Regno, quindi considerato quasi intoccabile, ogni incontro con lui rappresenta un autentico rischio anche per un membro della casa di Savoia come Maria. Questa rimane affascinata dalla profonda cultura del filosofo che con la sua straordinaria capacità dialettica intrattiene per delle ore la principessa circa l'infausto destino che attende l'Italia. Cosicché Maria, appena può, organizza spedizioni a Napoli sotto mentite spoglie.

Zanotti Bianco invece diventa un vero e proprio confidente della principessa la quale non riesce a trovare un solido appoggio in Umberto. Maria Josè sostiene, in favore del marito e contro coloro che lo hanno accusato di inerzia in un momento in cui l'Italia precipitava, che Umberto ha sempre coltivato gli stessi suoi ideali di libertà e democrazia e in seguito appoggerà moralmente l'impegno attivo della moglie per abbattere la dittatura. Ma in lui ha anche sempre prevalso la soggezione e l'obbedienza ad un padre che non avrebbe mai approvato l'opposizione del figlio contro il governo del suo stesso paese. Ciò che colpisce maggiormente l'attenzione, leggendo le biografie di Maria Josè è l'audacia con cui affronta il duce. Contrariamente al suocero, Vittorio Emanuele III che, forse anche per la minor prestanza fisica, teme Mussolini (accade che confidi al figlio Umberto di aver ricevuto il primo ministro con una rivoltella in tasca), Maria si reca a Palazzo Venezia ogni qual volta desidera una spiegazione in merito a qualche fatto accaduto o a qualche legge: "Eccellenza" chiede in una di queste incursioni, "cosa significa che il Gran Consiglio può pronunziarsi in materia di successione al trono?"

Nel Maggio del 1938 Hitler fa visita all'Italia. Roma dà il meglio di se stessa per accogliere con tripudio il suo ospite e Maria nota che sebbene il cancelliere tedesco sia disprezzato da più parti in Italia, famiglia reale compresa, l'unica autorità che esprime platealmente la propria disapprovazione per quella visita è Papa Pio XII; questi si rinchiude a Castelgandolfo in segno di protesta e fa sbarrare i cancelli dei Musei Vaticani per impedire al Führer un'eventuale visita. Inoltre al passaggio del nazista per Napoli, illuminata a festa, gli unici luoghi che rimangono al buio, per ordine del pontefice, sono le chiese.

A tavola Hitler era seduto accanto a Maria. Hitler era compassato e glaciale, mangiò un pezzo di cioccolata con forchetta e coltello, e biscotti al posto del pane. Vittorio Emanuele III, non appena Hitler gli voltava le spalle, faceva smorfie di raccapriccio e lei e il marito temevano potessero esser viste dal seguito del dittatore. Maria fu l'unica persona della Famiglia Reale Sabauda a dover parlare col dittatore tedesco perchè era l'unica a conoscere il tedesco, oltre a Mafalda di Savoia e al marito di quest'ultima Filippo d'Assia! Durante il pranzo H

Durante il pranzo Hitler chiese a Maria se in Belgio c'erano tanti Ebrei e la Principessa, messa alle strette, rispose affermativamente. Hitler fece allora un sorriso terribile!

Intanto continuano le frequentazioni della principessa del Piemonte con gli intellettuali alcuni tra i quali invisi al regime. La sua residenza al Quirinale diventa luogo di ritrovo per letterati e scrittori come D'Amico, Ojetti, Papini, Manacorda, Bontempelli, Flora, Elio Vittorini (di lei disse: "Era Maria Josè l'uomo di famiglia") e Maraini. Maria Josè è convinta che il ruolo della casa reale nel rovesciare la dittatura sia quello di intermediazione e collegamento tra le varie forze antifasciste, militari e intellettuali. Il re però che già non tollera il minimo intervento del figlio in politica, con maggior irritazione respinge le intromissioni della nuora; da intransigente antifemminista, è convinto che le donne non siano dotate della stessa intelligenza degli uomini e che quindi debbano essere necessariamente escluse dagli affari dello Stato.

In realtà Maria dimostra di avere più realismo politico di lui e lavora affinché il suocero sia messo al corrente di tutti i movimenti e le manovre degli oppositori. Con questi ultimi, dal momento dell'invasione della Polonia da parte di Hitler, la principessa comincia a complottare con sempre maggior determinazione e, d'accordo con il conte Ciano e suo marito Umberto, è convinta che solo un cambiamento di prospettiva del duce possa salvare l'Italia dal baratro della guerra.

"Alla fine del marzo 1940 oramai le intenzioni di Mussolini si erano delineate con chiarezza. Pensai così di rivolgermi a due mie vecchie conoscenze: il duca Amedeo d'Aosta, allora viceré d'Etiopia e Italo Balbo, governatore della Libia. Il primo, pur essendo un Savoia, non riscuoteva la simpatia di Vittorio Emanuele III, il che aumentava le sue chance di far presa su Mussolini. Il secondo, ormai diventato un rivale del duce restava un uomo che aveva contribuito in maniera determinante all'avvento del fascismo. Con entrambi, poi, avevo un rapporto di profonda amicizia e c'era identità di vedute in politica. Così recapitai loro due messaggi dall'analogo contenuto. Dopo qualche giorno, i primi d'aprile, tanto il duca, quanto Balbo erano a Roma. Li incontrai separatamente".

Il 17 ottobre 1940 Maria raggiunge il Belgio occupato dai tedeschi. Il re Leopoldo, suo fratello è rinchiuso nel castello di Laeken e chiede alla sorella di recarsi al suo posto a colloquio con Hitler. "Ero tesa, lo ammetto. Hitler non mi faceva paura, ma ricordavo bene la sua espressione glaciale. Il suo aspetto era quello di un autista, di uno chauffeur di un taxi. Stava rigido e impettito come un manichino e alternava momenti di grande cordialità a scatti di collera o a sguardi rabbiosi.Restammo a lungo in silenzio.
Poi iniziai a parlare della situazione in Belgio. Ma Hitler m'ignorava, continuava a guardare il pavimento. Tanto che a un certo punto esclamai: 'Se non vuole parlare con me perché sono donna e ritiene che non debba occuparmi di politica, vada a trovare mio fratello. Lui le confermerà quanto pesino sulla sua anima le sofferenze inflitte al popolo belga'. Finalmente il Führer mi degnò di uno sguardo. Così cominciai ad avanzare qualcuna delle mie richieste. Fu tutto inutile. Appena finivo la frase Hitler rispondeva con un secco e beffardo 'nein'. Era come se pronunziare quelle quattro sillabe gli procurasse un piacere sottile. 'Nein', 'nein' e intanto, storcendo la bocca da un lato, mandava in su quei suoi baffetti neri alla Charlot". Il dittatore la definì "il perfetto modello di una principessa ariana" ma non le concesse nulla.

Si dice che Hitler perse la testa per la nostra Principessa e la temeva pure!


Negli anni che vanno dal '41 al 25 luglio del '43, il giorno della destituzione di Mussolini, uno dei personaggi cruciali nelle cospirazioni al Quirinale all'interno delle stanze della principessa, è Carlo Antoni. Discepolo di Croce e professore di filosofia e diritto costituzionale a Padova, Antoni è convinto che sia necessario abbattere il più presto possibile Mussolini e coinvolgere nel colpo di Stato il maresciallo Badoglio per assicurarsi l'appoggio delle forze armate.


La monarchia, secondo lo stesso, non ha molte possibilità di sopravvivere, comunque vadano le cose. E' dunque opportuno redigere una lista di candidati per la direzione di un governo democratico. La lista viene redatta insieme a persone di fiducia come Alcide De Gasperi, che lavora alla biblioteca vaticana, Guido Gonella, famoso per i suoi articoli comparsi sull'Osservatore Romano contro il regime e monsignor Montini, portavoce del pensiero del papa. Gli incontri avvengono in luoghi disparati, ma sempre nella più rigorosa clandestinità; in alcune occasioni è persino obbligatorio chiamarsi con nomi in codice: quello della principessa è Beppa. E di volta in volta l'entourage si ingrossa di nomi come quello di Luigi Einaudi, Ivanoe Bonomi, il generale Ambrosio, Dino Grandi e Galeazzo Ciano. E' Montini che mette in contatto Maria Josè con gli alleati tramite gli 'osservatori' inviati dagli Stati Uniti in Vaticano. Gli alleati le fanno sapere di essere pronti ad intervenire all'uscita dell'Italia dalla guerra, anche per inviare i rifornimenti necessari.
Di tutto ciò Vittorio Emanuele III è sempre al corrente grazie alla nuora che utilizza il ministro della Real casa, Acquarone come 'canale' di comunicazione; in questo modo il re apprende che il fronte antifascista sta solo aspettando con trepidazione un clamoroso suo gesto per destabilizzare Mussolini. Anche il Partito Comunista, per il momento, offre la propria collaborazione alla Corona e affida a Maria il compito di rendere nota al re la propria disponibilità a determinate condizioni. Ma per ora il monarca, scettico e strenuo anticlericale, decide solo di vietare a Maria il dialogo con il Vaticano e, tramite questo, con gli Stati Uniti. Anzi, nel '39 per accontentare Mussolini, Vittorio Emanuele aveva conferito a Hermann Goering, braccio destro di Hitler, il collare dell'Annunziata. E così l'incertezza e l'insofferenza calano sugli antifascisti ai quali non rimane che appellarsi continuamente alla principessa perché solleciti l'iniziativa reale. Nel febbraio del '43 Maria di Piemonte, contravvenendo agli ordini di Sua Maestà, decide di riprendere i contatti con gli alleati per garantire all'Italia un'uscita decorosa dalla guerra.
Insieme a Montini e Gonella sceglie di usare come mediatore il presidente del Portogallo, Oliveira Salazar che ha ottimi rapporti con la Gran Bretagna. La risposta che gli alleati le fanno pervenire è chiara: finché l'Italia non dichiarerà la resa incondizionata non ci sarà nessuna trattativa. Finalmente sul diario personale di Maria si legge: "25 luglio 1943. Il Gran Consiglio finì alle due e mezza di questa mattina. Dopo lunga, violenta discussione, ha preso la decisione di allontanare Mussolini e di sciogliere il Partito fascista. Coloro che hanno sostenuto questa tesi sono stati Grandi, Bottai, De Vecchi e De Bono. Alle 7 del mattino (in realtà alle 17, ndr) il Duce è stato ricevuto dal re a Villa Savoia. All'uscita un capitano dei carabinieri lo ha invitato, per la sua sicurezza, a seguirlo in un'autoambulanza che è partita per ignota destinazione...". "Ricordo che, da una finestra del Quirinale, assistetti con una certa tristezza alle manifestazioni di gioia inconsulta della folla. La gente buttava giù le statue e i busti di Mussolini, i fasci littori, le aquile e tutte le insegne del regime. A un certo punto abbatterono a colpi di martello una statua del dittatore che stava a via della Dataria, dietro la reggia. Ne fecero rotolare l'enorme capo prima di frantumarlo in mille pezzi, fra sputi ed ingiurie irripetibili. Pensai alla crudeltà della storia coi suoi corsi e ricorsi: soltanto ieri lo avevano osannato, ora lo condannavano furiosamente" .

Gli eventi intanto stanno precipitando e il 5 Agosto Salazar comunica in anteprima alla principessa la decisione degli alleati: la resa dell'Italia sarà trattata senza nessuna condizione. Informato immediatamente il re, traboccante di rabbia per le intromissioni della nuora negli affari di Stato, impone l'ultimatum: Maria Josè dovrà lasciare Roma con i suoi figli entro 24 ore.
Inizia così il primo esilio della principessa, che inizialmente viene relegata in Piemonte, a Sant'Anna di Valdieri, in Piemonte in provincia di Cuneo! Su questo esilio ci sono due ipotesi: la prima è che il Re Vittorio Emanuele III l'avesse mandata via da Roma per evitare altri complotti, la chiamava oramai "La belga intrigante"! Un'altra ipotesi è quella che Maria fosse stata mandata a Sant'Anna di Valdieri per spiare le mosse dei Tedeschi e riferirle a Roma!
Gli storici ritengono però più certa la prima ipotesi!

A Sant'Anna di Valdieri andò assieme ai figli e alla cognata la Principessa Jolanda, la cognata con cui non andava per niente d'accordo... secondo gli storici il Re Vittorio Emanuele III mandò assieme alla nuora Maria Josè anche la figlia Jolanda perchè sapeva dell'antipatia che c'era tra le due donne e Jolanda avrebbe così evitato che Maria Josè si mettesse di nuovo in contatto con i suoi amici. Jolanda lasciò poi Sant'Anna di Valdieri. Maria Josè resto nel paesino piemontese da sola.

L'armistizio dell'8 settembre del 1943, la sorprende sola a Sant'Anna di Valdieri con i suoi figli circondata da tedeschi. Riesce fortunosamente a riparare in Svizzera grazie all'aiuto del colonnello medico Francesco Arena.


Nel 1943, Hitler temeva un'abdicazione a favore di Vittorio Emanuele, con la reggenza di Maria Josè: "catturate il bambino", gridava Hitler come un ossesso, "il bambino è la cosa più importante".


In Svizzera la sorveglianza è serrata e impedisce ai nazisti di avvicinarsi ai reali ma manda anche a monte i vari piani di Maria per scappare in Italia. L'unico rimpianto della sua vita, sostiene lei stessa, è stato quello di non essere fuggita dall'esilio per prendere parte alla lotta partigiana. In realtà anche dalla Svizzera riesce a dare il suo contributo; più volte riceve segretamente alcuni capi partigiani che insistono per avere tra le file di combattenti la principessa, la cui presenza avrebbe costituto oltre che uno sprone per la battaglia, anche una legittimazione della Resistenza. Ma l'unica attività che la futura sovrana riesce a portare avanti è la raccolta di denaro, di armi ed d'ogni genere di cose per la sopravvivenza dei partigiani: "Mettevo il tutto in una valigia che, ovviamente diventava pesantissima. Prendevo un qualunque treno diretto verso l'Italia e scendevo all'ultima stazione prima della frontiera. Lasciavo il bagaglio al deposito, dove andava a ritirarlo 'chi di dovere'. Oppure, altre volte, lo consegnavo direttamente, simulando un incontro con dei presunti familiari. Per non essere riconosciuta viaggiavo in terza classe, tutta imbacuccata Rischiavo grosso perché se fossi stata scoperta la cosa avrebbe mandato su tutte le furie la polizia svizzera che mi chiedeva continuamente di restare estranea a qualunque attività politica". Più volte oltrepassa il confine svizzero e scala le cime delle montagne per raggiungere le basi partigiane così da portare ai partigiani denaro, armi e altre cose che avrebebro aiutato la Resistenza.

Alla Regina viene offerto dai Partigiani la carica di "Ispettore Generale delle Forze Partigiane del Piemonte", Maria Josè però rifiutò la carica per evitare altre guerre in Casa Savoia.


A Ginevra Maria incontra Luigi Einaudi e inzia con lui una solida amicizia. Ufficialmente il professore impartisce lezioni di economia alla principessa, in realtà insieme discutono della sorte che sarebbe toccata all'Italia.


Sul suo rientro in Italia ci sono almeno due versioni: una dice che tornò dopo la liberazione di Roma, nel giugno del 1944, quando Umberto divenne Luogotenente del Regno, secondo l'altra versione tornò a piedi nel castello di Sarre e da lì gli alleati la scortarono al Palazzo Reale di Torino, sede del comando inglese il 28 maggio 1945.
In quei giorni Maria José incontra anche Palmiro Togliatti e successivamente dichiarerà di simpatizzare per Saragat e il socialismo.

Alla fine dell'aprile 1945 Maria Josè ritorna in Italia. Dopo alcuni mesi può riabbracciare Umberto: è dal luglio '43 che non si vedono. Rientrati a Roma, il clima che li aspetta non è dei più felici. La Corona viene accusata di aver trascinato la nazione alla deriva, cosa che la principessa aveva predetto: se la casa reale non chiarisce la propria posizione di estraneità al fascismo ed al nazismo, ne pagherà le conseguenze. E infatti le minacce di attentati, le urla e le ingiurie sotto le finestre del Quirinale, sono all'ordine del giorno. Maria e Umberto tentano il tutto per tutto per un recupero d'immagine: si dedicano alla cura degli indigenti e la piccola Maria Pia viene iscritta alla scuola pubblica vicino casa, tra le vive proteste dei nonni paterni.
E' Croce, ormai malato che illustra alla principessa l'attuale situazione politica: "...mi mise al corrente dell'acceso dibattito che, proprio in quei giorni, impegnava i partiti a proposito dell'idea di sottoporre la questione istituzionale a referendum. Effettivamente era sicuro che una reggenza avrebbe avuto molte più chances di una luogotenenza. Fu a questo punto che Croce, mettendomi in un certo imbarazzo, mi confessò che, in base alle sue convinzioni, io sarei stata 'la reggente ideale'. 'Una delle deficienze della nostra vita politica (spiega Croce, ndr) è la mancanza di un partito conservatore.
Di tal mancanza si era lamentato in passato Silvio Spaventa, dato che allora tutti gli elementi conservatori, così come i borbonici, si erano ritirati dalla vita pubblica e l'etichetta di conservatori venne attribuita alla destra, che per molti lati era invece nettamente radicale...'".

Alla domanda di Zanotti Bianco se la religiosità poteva qualcosa contro l'avanzata del materialismo comunista, Croce risponde: "Le uniche forze idonee a combattere il comunismo sono quelle dell'intelligenza, della cultura e della libertà".

Giovedì 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdica in favore del figlio: Umberto II e Maria Josè sono i nuovi regnanti d'Italia. La regina non ricorda il periodo della reggenza come uno dei momenti più belli della sua vita; costretta a subire violente contestazioni, perseguitata dalla stampa, divisa tra le pressioni dei monarchici che vorrebbero rinviare la data del referendum e il suo scetticismo sul ruolo della monarchia in Italia, in quel momento, come garante dell'unità e della pace, finisce per ritirarsi completamente dalla scena politica e si butta a capofitto nelle opere di assistenza. Vengono fondati in pochi giorni la Colonia Maria Pia, per intrattenere i bambini delle donne lavoratrici, il poliambulatorio del Quirinale, un ufficio di pronta previdenza, la mensa Maria Gabriella che fornisce pasti ai poveri, la casa Maria Beatrice per i mutilati.

Va detto che Umberto e Maria José si batterono abilmente per la causa monarchica ricorrendo perfino ad esperti di pubblicità americani. Il Quirinale si riaprì alle feste, ai ricevimenti, il nuovo re viaggiò in lungo e in largo per l'Italia in un'autentica campagna elettorale con conseguente grande ricupero di consensi, che, tuttavia non furono sufficienti.
Molti studiosi concordano che se Vittorio Emanuele avesse abdicato prima forse le cose non sarebbero andate così.


Il 2 Giugno 1946 l'Italia è chiamata alle urne per decidere la forma di governo. Un giornalista amico della regina ricorda che Maria uscendo dall'aula elettorale gli confidò: "Ho votato per Saragat e ho restituito l'altra scheda". " ... io non sono mai stata marxista, (confessa l'ex regina, ndr) l'avrei detto chiaramente. Il mio voto del '46 fu frutto di un'accurata riflessione, di convinzioni ben precise maturate a seguito di un'esperienza piuttosto movimentata. Pensavo che se la monarchia avesse mai superato la prova del referendum, non avrebbe potuto essere altro che un'istituzione volta principalmente al perseguimento dell'eguaglianza e della giustizia sociale...".

Il 13 giugno 1946, Umberto lascia l'Italia a bordo di un Savoia Marchetti e vola verso il Portogallo. Maria José, invece, è partita con i ragazzi il 6 giugno da Napoli, a bordo del Duca degli Abruzzi, destinazione Sintra passando per Lisbona. Il loro regno è durato ventisette giorni, resteranno nella storia come il "re e la regina di maggio".

Nel '48 la XIII norma transitoria e finale della Costituzione italiana stabilì il divieto di ingresso e di soggiorno sul territorio nazionale per gli ex re d'Italia, le loro consorti ed i loro discendenti maschi.
La nuova situazione libera definitivamente maria José e Umberto dall'obbligo di fingere di essere una coppia unita.
Lui resterà a Cascais, a Villa Italia, per ripercorrere le orme di Carlo Alberto, lei compera il castello di Merlinge, in Svizzera, e continueranno la loro vita separati, incontrandosi solo nelle occasioni ufficiali.
Passano gli anni, i figli crescono e danno non poche preoccupazioni con le loro esuberanze, Maria José è afflitta da guai alla vista, ma questo non le impedisce di vivere freneticamente. È una gran viaggiatrice e un'accanita fumatrice, conduce una vita sportiva, continua ad occuparsi di opere filantropiche ed umanitarie, coltiva la passione per la musica e la letteratura. Brava pianista, istituisce vari premi musicali. Da scrittrice pubblica con la Mondadori uno studio su Amedeo VIII.
Rimane molto legata all'Italia e prima del sì al suo rientro in Italia disposto dal Consiglio dei ministri il 23 dicembre 1987, i giornali danno più volte notizia delle sua presenza clandestina sul territorio nazionale.

La sua prima visita legale in Italia avviene nel 1 marzo 1988: un viaggio ad Aosta per assistere ad un convegno storico, dedicato alla figura di Sant'Anselmo. Nel luglio 1990 Maria Josè chiede allo Stato italiano la pensione come vedova di un ufficiale dell'esercito. Nel 1992 si trasferisce in Messico, per poi ritornare nel 1996 presso la figlia Maria Gabriella a Ginevra.

La morte la coglie a Ginevra, il 27 gennaio del 2001. Per suo espresso volere viene sepolta nella storica abbazia di Altacomba, in Alta Savoia, dove dal marzo del 1983 riposa anche la salma del marito Umberto.

Dopo la sua morte i mass media si sono scatenati e i coccodrilli si sono sprecati: "regina di maggio, l'ultima sovrana d'Italia, donna ardita, ribelle, intelligente, colta, antifascista, dedita alle buone azioni ed alla beneficenza, regina repubblicana, partigiana, bellissima picconatrice, capitata nella famiglia sbagliata."

Edited by veu - 29/6/2021, 19:29
 
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*Cristine*
view post Posted on 4/8/2006, 19:28




potete mettere qualche foto se ne avete?
 
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view post Posted on 4/8/2006, 21:10
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Marie-Antoinette

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view post Posted on 4/8/2006, 21:42

Marie-Antoinette

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PS: Molto bella la foto messa da *§Yue§*!!!





Edited by veu - 4/8/2006, 22:54
 
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view post Posted on 4/8/2006, 22:13

Marie-Antoinette

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Altre foto:

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image (qui a 70 anni)

image (qui nel 1997)

Ne mettiamo poi anche altre!

Edited by veu - 6/8/2006, 23:50
 
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*Cristine*
view post Posted on 5/8/2006, 10:20




è davvero una bella donna..nelle foto colpiscono molto i suoi occhi!
 
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miciacicia
view post Posted on 6/8/2006, 20:51




E' vero.. occhi bellissimi!!! Un paio d'anni fà, la rai se non sbaglio, fece una fiction sulla sua vita
 
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view post Posted on 6/8/2006, 22:13

Marie-Antoinette

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Sì! La Rai realizzò uno sceneggiato in 2 puntate sulla vita della sovrana! Il titolo del film è "MARIA JOSE' L'ULTIMA REGINA"!

Il film vede la splendida attrice slovacca Barbora Bobulova nel ruolo di Maria Josè, Alberto Molinari è il marito Umberto e Antonella Ponziani nei panni di Mafalda!

Il film è uscito anke in dvd!


Alcune immagini del film:

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view post Posted on 6/8/2006, 22:46

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Articolo sul film:

Una donna moderna, contraddittoria e ribelle: arriva sul piccolo schermo il film di Carlo Lizzani sull’ultima regina italiana, in onda in due parti lunedì 7 e martedì 8 gennaio alle 20.50 su Raiuno.

Maria José, parlano i protagonisti


A quasi un anno dalla morte di Maria Josè, l’ultima regina d’Italia, arriva sul piccolo schermo un film di Carlo Lizzani che, con il suo riconoscibile tocco da maestro del cinema, ripercorre le vicende della principessa del Belgio dagli anni della sua dolescenza fino al matrimonio con il principe Umberto di Savoia e la fine della monarchia. Annunciato come uno dei prodotti di punta di Rai Fiction, “Maria Josè: l’ultima regina”, in onda lunedì 7 e martedì 8 gennaio alle 20.50 su Raiuno, è un film che merita grande attenzione, non solo per la regia e per l’interpretazione degli attori -dalla efficace e sensibile Barbora Bobulova nel ruolo di Maria Josè al contenuto Alberto Molinari in quello del marito Umberto di Savoia– ma anche per il magnifico ritratto della protagonista, “una donna moderna, ribelle, anche contraddittoria e sicuramente all’avanguardia in molti campi”, come dice Lizzani.
Ed è soltanto un caso che il film, realizzato da Elio e Maurizio Manni per Progetto Immagine e costato 7 miliardi e 700 milioni, esca proprio adesso, a circa un anno dalla scomparsa di Maria Josè, morta a 94 anni. “In realtà è un’opera che viene da molto lontano, dice Lizzani, e non si tratta certo di un instant movie. Questo film è il frutto di un lavoro di incrocio tra le biografie scritte da Arrigo Petacco e Adele Cambria ed una serie di interviste, testimonianze e documenti raccolti in trent’anni”. Ma non solo. Prodotto da Rai Fiction, il film è il coronamento di un vecchio progetto di Lizzani dato che l’idea orginale risale addirittura al 1964, l’anno in cui il regista realizzò “Il processo di Venezia”.

Subito dopo, infatti, il cineasta avrebbe voluto girare un film intitolato “La caduta dei Savoia” con Ingrid Bergman e Maximilian Schell nei ruoli di Maria Josè e Umberto ma il progetto non andò in porto. Se ne tornò poi a parlare negli anni ’80 (nel frattempo per il ruolo della protagonista Lizzani si era indirizzato verso Dominique Sanda), ma anche il secondo tentativo non vide la luce per una serie di motivi diversi. E’ grazie alla Rai, dunque, se il film è arrivato in porto e a ricordarlo è Stefano Munafò, il direttore di Rai Fiction. “Questo progetto è nato due anni fa, dichiara Munafò, e per certi versi si è trattato anche di una scelta rischiosa. Per ovviare al pericolo della standardizzazione, abbiamo cercato di selezionare alcune miniserie che raccontassero la storia e le radici dell’identità italiana ed è in questo filone che si inseriscono titoli come “Maria Josè” di Lizzani o i prossimi “Perlasca”, “La guerra è finita” e “La meglio gioventù”. Perché scelte rischiose? Si tratta di un’offerta in controtendenza a Mediaset, ma anche rispetto ai gusti prevalenti del pubblico”.

Gli spettatori, in ogni caso, non tarderanno a farsi conquistare da questo straordinario personaggio femminile che, interpretato in modo molto convincente dalla Bobulova viene inquadrato da Lizzani nel periodo compreso tra il 1917 ed il 1946. Lo scenario è quello dei palazzi di corte in Italia e in Belgio, degli alti comandi militari in Piemonte, a Napoli e a Roma, dei circoli nobiliari e del Vaticano. Nella prima parte, in onda lunedì 7, il regista ritrae gli anni dell’adolescenza della principessa del Belgio – Maria Josè apparteneva alla famiglia Sassonia-Coburgo- il suo periodo di studi nel collegio di Poggio Imperiale a Firenze dove conobbe Umberto di Savoia a cui era promessa e i primi anni del suo matrimonio. Ecco, dunque, incastonati in un alto registro stilistico il privato di Maria Josè, il suo dolore di fronte all’indifferenza di Umberto, i tentativi disperati di trovare un punto d’incontro tra due personalità così diverse: lei raffinata, amante delle opere, del teatro, delle arti, lui dedito ai balli, alla mondanità dell’aristocrazia piemontese, alle frequentazioni dei varietà. Una donna coraggiosa, e non solo nello sfidare le convenzioni sociali ergendosi a benefattrice dei “bassi” napoletani o recandosi in Africa come crocerossima ma anche nel tener testa al padre di Umberto, re Vittorio Emanuele III. In fondo, benchè sposata a colui che era considerato il più bel principe d’Europa, Maria Josè versò non poche lacrime nei primi anni del suo matrimonio e neanche il trasferimento dal Piemonte a Napoli la aiutò a superare i momenti di crisi. A Lizzani, però, interessa non solo tratteggiare la personalità complessa della regina ma anche raccontare la crucialità di quel periodo storico e, pur rivolgendosi alla platea televisiva, il film dedica ampio spazio agli sforzi di Maria Josè nel dare alla monarchia italiana un’immagine diversa e moderna.



Curiosità:

Carlo Lizzani, il regista e produttore del film, pensava già da tempo, dagli anni '60, a realizzare il film e il titolo originario doveva essere "LA CADUTA DEI SAVOIA"!
Negli anni '60 Lizzani aveva pensato all'attrice svedese Ingrid Bergman per il ruolo di Maria Josè e all'attore austro-ungherese Maximillian Schell per il ruolo di Umberto! Il film non andò in porto!

Lizzani ci ripensò negli anni '70 e qui nei panni di Maria Josè e di Umberto dovevano esserci rispettivamente l'attrice inglese Vanessa Redgrave e l'attore italiano Marcello Mastroianni, ma neppure questa volta riuscì a realizzare il film!
Lizzani ci riprovò di nuovo negli anni '80 e aveva scelto l'attrice Domenique Sanda per il ruolo della regina! Non riuscì nemmeno questa volta!

Lizzani dovette aspettare il 2000 per poter finalmente realizzare il tanto sognato film! Questa volta la scelta della protagonista cadde sull'attrice italiana e famosa anche all'estero Greta Scacchi! Però poi Lizzani preferì puntare su Barbora Bobulova!
 
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*Cristine*
view post Posted on 7/8/2006, 10:53




grazie veu!!
 
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view post Posted on 7/8/2006, 15:28

Marie-Antoinette

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Prego!
 
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view post Posted on 27/8/2006, 21:58

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Altre bellissime immagini di Maria Josè:

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view post Posted on 31/8/2006, 21:20

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Stemma della famiglia reale sabauda:

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view post Posted on 31/8/2006, 21:58

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Il marito:

UMBERTO II DI SAVOIA

Umberto nasce a Racconigi (paesino in provincia di cuneo) il 15 settembre 1904 e muore a Ginevra il 18 marzo 1983.

Umberto è stato luogotenente del regno d'Italia dal 1944 al 1946 e Re d'Italia dal 9 maggio del 1946 al 2 giugno dello stesso anno (per questo breve periodo di regno fu detto Re di maggio). Il suo nome completo è Umberto Nicola Tomasso Giovanni Maria, Principe del Piemonte.

Nato nel 1904 da Vittorio Emanuele III di Savoia ed Elena del Montenegro, Umberto riceve il titolo di principe di Piemonte in qualità di erede al trono d'Italia.

Purtroppo la nascita del Principe, salutato da una folla enorme radunatasi davanti al castello, fu accompagnata da scioperi e disordini estesesi a tutta l’Italia tra il 16 e il 20 settembre: solo la sera di quel giorno il “grande uragano rosso” (come fu definito) ebbe termine.
Il Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni Giovanni Giolitti stilò l’atto di nascita lo stesso 20 settembre, esercitando le sue funzioni di “Notaio della Corona”.
Come per tutti i Principi di Casa Savoia e come in generale per tutti i Principi Reali delle Dinastie allora regnanti, l’educazione di Umberto fu molto severa. Unico maschio della Famiglia Reale (era stato preceduto dalle Principesse Reali Jolanda nel 1901 e Mafalda nel 1902 e sarà poi seguito dalle Principesse Reali Giovanna nel 1907 e Maria nel 1914) ed Erede al Trono, il Principe doveva necessariamente ricevere un’educazione, non soltanto secondo le tradizioni militari della sua Casa, ma che ne facesse un Principe, con le responsabilità future di un Sovrano costituzionale di uno Stato, già considerato grande potenza mondiale.

Per volontà del Re suo padre fu dapprima affidato ad un severo collegio di maestri. Successivamente, a nove anni di età, il Re nominò il Capitano di Fregata della Regia Marina Attilio Bonaldi, uno dei suoi Aiutanti di Campo, “Governatore di Sua Altezza Reale il Principe Reale Ereditario”. Il neogovernatore proveniva da una famiglia di elevate virtù patriottiche, distintasi durante il Risorgimento: uomo di grande cultura e di alto intelletto, era stato anche uno dei primi comandanti di sommergibili della Regia Marina.
Contrariamente a quanto successivamente sostenuto, tra il Principe e il Suo Governatore si stabilì una forte corrente di simpatia, confermata da numerose lettere scritte dal giovane Principe al suo Governatore e firmate “Pupo”, così chiamato dallo stesso Bonaldi e dalla Famiglia Reale, in alternativa al nomignolo “Beppo” (sua mamma la Regina Elena era solita chiamarlo così!).
È interessante ricordare un episodio significativo nella vita del Principe e del suo educatore. Nel 1914 alla prima crociera dell’Erede al Trono sull’Incrociatore “Puglia”, il Governatore notò che il reale allievo si commuoveva fino ai lacrimoni davanti all’equipaggio. Molto decisamente e seccamente gli disse: «Altezza Reale, si ricordi che un futuro Re non piange mai!». Questo spartano modo educativo fu tuttavia bilanciato nel privato da un notevole slancio affettivo. Si può quindi concludere che l’educazione ricevuta dall’Ammiraglio Bonaldi, era stato promosso successivamente a questo grado, finì per preparare davvero il Principe Umberto al suo futuro ruolo dinastico.
Un’idea di quella che poteva essere allora una giornata “normale” del giovane Principe?
Di buonora religione con Mons. Beccaria, Cappellano Maggiore del Re; quindi lettere con il Prof. Taddei, seguite dalle lingue straniere con Gelosi e Paluani. Più tardi, studi militari (Colonnello Pietro Pintor, Comandante della Scuola di Guerra); ancora: matematica e scienze della finanza (Prof. Viali); diritto (Senatore Polacco); storia politica e coloniale (Prof. Mosca); storia dell’arte (Prof. Corrado Ricci); storia navale (Capitano Bettioli); educazione fisica (Gualdi). Inoltre, scherma con Sassone; inglese con Miss Brown e francese con il Prof. Gelosi. Ad insegnargli le scienze naturali fu direttamente lo stesso Bonaldi.
Con la prima guerra mondiale, essendo Re Vittorio Emanuele III al fronte con i suoi soldati, il Principe Ereditario a meno di undici anni deve svolgere il ruolo della continuità dinastica. Il 6 giugno 1915, nel corso di una manifestazione patriottica, fu chiamato dalle grida della folla al balcone del Quirinale ed al suo apparire scatenò un vero e proprio delirio.

A 14 anni il Principe entra nel Collegio Militare di Roma per tre anni: vi si distinse per la semplicità e camaraderie con gli altri allievi del Collegio, pur se i suoi rapporti con loro fossero necessariamente limitati, dovendo continuare le sue lezioni “private”.
Fin da giovanissimo Umberto II manifestò un suo intimo fervore religioso, diremmo vicino al misticismo ed alla meditazione: è uno degli aspetti meno conosciuti del Sovrano. Non è da escludersi che questo poteva derivargli anche dal fervore religioso tipico dei cristiani ortodossi. Non dimentichiamo infatti che la Regina Elena era nata cristiana ortodossa: tali erano tutti i suoi parenti montenegrini e russi. Di questo suo fervore nel corso della sua vita ne restano notevoli tracce che spiegano anche molti dei suoi atteggiamenti. La sua era una fede profonda, un sentimento radicato, non un semplice rispetto delle tradizioni religiose ed egli rimase sempre credente e di una fede incrollabile.


Educato secondo una rigida disciplina militare già nel corso della prima guerra mondiale, viene destinato al matrimonio con la principessa belga Maria José.

Nel corso della prima guerra mondiale, il Principe di Piemonte incontra in Italia la Principessa che doveva diventare sua Consorte nel 1930, in occasione di una visita nel nostro Paese del Re e della Regina del Belgio. I due giovani si piacquero subito e nacque fra di loro una istintiva simpatia.
L’educazione del Principe proseguiva con il passare degli anni, come proseguono le sue crociere istruttive su navi da guerra, sempre assieme all’Ammiraglio Bonaldi. Dopo essere stato all’Accademia Militare di Modena, nel novembre 1922 l’Erede al Trono viene nominato Sottotenente del Primo Reggimento Granatieri di Sardegna: il suo giuramento avvenne il 20 novembre 1922 nella Caserma Umberto I a Roma alla presenza del Sovrano suo padre. In quest’occasione il Re invitò a colazione al Quirinale tutti gli ufficiali del reggimento di suo figlio.
Il Principe Umberto è un ottimo militare, sia pure applicando una certa originalità alla rigida disciplina del Regio Esercito: fu un ufficiale molto amato dai suoi soldati e profondamente popolare con tutti gli ufficiali del suo reggimento. I suoi superiori militari lo riconoscono come un camerata affettuoso e contemporaneamente subordinato e deferente. La carriera dei Principi Reali è rapida: nel 1925 viene destinato con il grado di Tenente al 91° Reggimento Fanteria a Torino. Aveva 21 anni. Tre giorni dopo il suo arrivo si stabilì a Palazzo Reale, impiantandovi la sua “casa militare”: Primo Aiutante di Campo Generale fu il Generale Ambrogio Clerici. Era stata proclamata ufficialmente la sua maggiore età.
Da questa epoca cominciano i non facili rapporti del Principe con il fascismo: Mussolini non nutriva per l’Erede al Trono una particolare simpatia, sentimento del resto condiviso dal Principe. Il Duce disapprovava la frequentazione del Principe di certi ambienti culturali torinesi: tra l’altro, s’infuriò moltissimo perché Umberto presenziò ad una conferenza del Prof. Pietro Silva, storico alla Facoltà di Magistero di Roma, in fama di antifascista.
Il Generale Clerici ebbe quindi il non facile compito di districarsi: in tale frangente lo fece con grande abilità tenendo presente il contrasto esistente tra gli atteggiamenti e le simpatie dell’Erede al Trono e il Governo fascista. Ulteriore prova dell’ambiguità dei rapporti esistenti tra la Corona e la dittatura fascista per oltre un ventennio. Mussolini poi faceva controllare tutti i movimenti della Famiglia Reale come se si trattasse di semplici cittadini: ciò non poteva facilitare i rapporti tra il Sovrano e il suo Primo Ministro. È anche vero però che ufficialmente Casa Savoia fu costretta a controllare i suoi disaccordi con il fascismo tenendo presente l’indiscusso favore popolare e il seguito che il fascismo aveva da parte dalla maggioranza della popolazione.
I vari provvedimenti del Governo - tra i quali le famose “leggi fascistissime” del 1926 (scioglimento dei partiti, annullamento dei passaporti, soppressione della stampa e delle associazioni avverse al regime, ecc. ecc.) - che il Re, nel suo intimo, essendo contrario allo Statuto, non poteva approvare, furono però accettati dalla Corona, costretta a considerarli come un adeguamento delle Istituzioni alla “nuova coscienza generale”, rappresentata dal consenso della nazione nei confronti del fascismo e del suo capo. D’altra parte la Corona, salvo il golpe militare, non disponeva di alcuno strumento costituzionale per sbarrare la strada alla dittatura. Tale concetto era lontanissimo dalla mentalità di Vittorio Emanuele III, strettamente ligia allo spirito dello Statuto. Certo è che tra Mussolini e il Sovrano cresceva continuamente una reciproca diffidenza.

Durante gli anni del regime fascista segue una rapida carriera militare divenendo generale dell'esercito. Popolarissimo nel paese per il suo fisico avvenente (era chiamato le Prince Charmant ed era senza dubbio bellissimo, il più bel principe del suo tempo!) e le innumerevoli avventure rosa che si ricamano sul suo conto (famosissima la love story con la soubrette Milly), Umberto vive in realtà ai margini del regime fascista. Di formazione liberal-conservatrice, Umberto non suscita particolari simpatie in Benito Mussolini, che anzi raccoglie sul suo conto un dossier relativo alla presunta omosessualità del principe.

Mussolini infatti iniziò già alla fine degli anni Venti a raccogliere sul principe ereditario un dossier da usare per ricattarlo.
Con questo "dossier", dal quale provenivano le lettere che aveva in tasca al momento della cattura, il "duce" riuscì a tenere in pugno Umberto, arrivando a specificare con una "velina" ai giornali che egli non doveva essere definito "Principe ereditario" ma solo "Principe di Piemonte".
A Umberto fece così capire che se non avesse rigato diritto lo avrebbe sostituto, al momento della morte del padre, con un altro Savoia o perfino col genero Gian Galeazzo Ciano. E se avesse protestato, ci sarebbe stato il "dossier" per screditarlo come "principe pederasta".

Umberto era dotato di profonda cultura, appassionato ed esperto di studi storici e numismatici, aveva la dimensione morale e fisica dei personaggi carismatici; chi Lo incontrava ne avvertiva la eccezionale personalità e ne serbava un magnifico ricordo.

Di animo buono e gentile, di intelletto agile e pronto,
di cuore saldo e generoso, suscitava una simpatia istintiva commista ad un senso di devota ammirazione.
Dotato di memoria prodigiosa, a distanza di anni era in grado riconoscere chi aveva incontrato in precedenti occasioni anche tra migliaia di persone.
Diede sempre esempio didignità e di moderazione.
In ogni occasione si comportò coraggiosamente: così allorchè subì un attentato a Bruxelles e durante la guerra di liberazione, quando l’Esercito degli Stati
Uniti Lo propose per un’altissima decorazione al valore
militare che rifiutò.

L'8 gennaio 1930, nella cappella Paolina del Quirinale, si sposa con Maria José, principessa del Belgio. Umberto veste l'uniforme di colonnello di cavalleria. Secondo la leggenda sarebbe un matrimonio d'amore, ma la storia sarà comunque contrastata, a causa dei diversi interessi culturali, politici e sociali. In realtà fu davvero una storia d'amore, non è affatto vero che Umberto non amò mai la moglie!
Dopo la funzione gli sposi sono ricevuti da Papa Pio XI, segnale di un progressivo disgelo fra l'Italia e il Vaticano.

Maria Josè ed Umberto ebbero quattro figli!

L’ostilità del fascismo verso il Principe Ereditario continuò successivamente a manifestarsi. Ad esempio, dopo la nascita della primogenita la Principessa Reale Maria Pia nel 1934, il Principe avrebbe volentieri voluto un comando militare effettivo: Mussolini riuscì a tenerlo fuori da tutto: dalla politica, dai comandi effettivi e dalle azioni di guerra proprio mentre stava per iniziare il conflitto in Etiopia.
In quest’ultimo caso, almeno inizialmente, vi era stata una decisa opposizione del Sovrano ad ogni azione militare e Mussolini ne fu inizialmente frenato. Quando però la guerra scoppiò, il Duce mantenne ferma l’opinione che il Principe Ereditario dovesse essere escluso da questa avventura, sia per salvaguardare l’avvenire di Casa Savoia sia perché il Principe doveva preoccuparsi di dare un erede maschio alla Corona. La seconda ragione era evidentemente soltanto teorica.
Il Principe rimase profondamente amareggiato di questa esclusione, ma, abituato ad obbedire e nel rispetto delle decisioni del Sovrano e del Governo, dovette adeguarvisi. Per quanto riguarda i giudizi sul Principe Umberto, è interessante osservare quello che disse di lui al Re Vittorio Emanuele III lo stimatissimo e valoroso Maresciallo Enrico Caviglia: «Maestà, il Principe è stimato da tutti i suoi superiori come un ottimo ufficiale e quando, il più tardi possibile, sarà chiamato a regnare, sarà senz’altro un grande Re».
In quella particolare atmosfera patriottica, coinvolgente tutta l’Italia al tempo della guerra d’Etiopia, il Principe Ereditario altro non poteva fare che il suo dovere di Principe e di Ufficiale. Richiesto di donare oro alla Patria, offrì il suo Collare dell’Annunziata non consegnandolo di persona. Infatti era scontento: non gli piaceva fare il Generale d’ufficio, mentre i suoi due cugini, i Duchi di Bergamo e di Pistoia, avevano un comando di divisione in Etiopia. Pur dando come tutti gli italiani il suo apporto al Governo, trovava quasi derisorio l’essere stato chiamato, in quei giorni, a far parte del Consiglio Superiore dell’Esercito, organo che Mussolini neppure consultava. Si era oramai stancato di recitare il ruolo di “Principe di Rappresentanza”.
Dopo il telegramma del Maresciallo Badoglio che annunziava l’entrata delle truppe italiane ad Addis Abeba e la fine delle operazioni militari, Re Vittorio Emanuele III, contravvenendo alle rigide tradizioni di Casa Savoia, comunicò personalmente la notizia al Principe Ereditario: forse la prima volta che il padre comunicava direttamente al figlio un evento politico che lo riguardava.
Ed anche questa volta il contrasto Monarchia/Governo fu manifesto: il Re dovette ricordare al suo Primo Ministro di inserire nei documenti ufficiali che l’Impero - recentemente conquistato alla Corona di Casa Savoia - era “ereditario”. Mussolini se n’era dimenticato!, considerando la vittoria opera sua e lui il solo artefice. Questo dice già molto.
Il 12 Febbraio 1937 nacque il Principe Vittorio Emanuele: la successione alla dinastia era così assicurata. 101 colpi di cannone salutarono questo evento: tutta Napoli scendeva in piazza. L’Italia si coprì di coccarde e di bandiere. Il battesimo ebbe luogo il primo giugno a Roma nella Cappella del Quirinale ed il Principe ebbe i nomi di Vittorio Emanuele Alberto Carlo Teodoro Umberto Bonifacio Amedeo Damiano Bernardino Gennaro Maria.
Il “Corriere della Sera” scrisse in questa occasione: «È la storia che ci passa davanti: l’albero genealogico della più antica dinastia d’Europa, coi rami, le fronde, i fiori, i frutti, e in cima ad ogni ramo un cartiglio e un tondo, col nome e col volto...».
La nascita del nuovo Principe non riequilibrò purtroppo i poteri all’interno della diarchia, ormai irrimediabilmente sbilanciati. Il Principe Umberto continuò ad esplicare i suoi doveri di Generale di Corpo d’Armata, ben conscio tuttavia delle crescenti difficoltà che l’atteggiamento di Mussolini creava nei suoi rapporti con il fascismo.
Il più bell’esempio di tale contrasto (sia il Sovrano che il Principe Ereditario ne furono mortalmente offesi), fu l’investitura data a Mussolini nelle Forze Armate del grado di Primo Maresciallo dell’Impero: ciò poneva il Duce al di sopra di tutti i Generali. Naturalmente ne fu insignito anche il Sovrano che però veniva in ogni caso a perdere un’altra delle sue prerogative, quella di Capo delle Forze Armate, diventando parigrado con Mussolini.
Ricordiamoci però le date: 1938! Il Re non poté parare il colpo. Il Duce era ormai troppo forte e del resto la legge che istituiva il nuovo grado fu approvata per acclamazione dal Senato del Regno. Il Re a Mussolini disse chiaramente: «Dopo la legge del Gran Consiglio, questo è un altro colpo mortale contro le mie prerogative sovrane. Le Camere non possono prendere iniziative anticostituzionali del genere. In altri tempi, di fronte a operazioni come questa, avrei preferito abdicare». Conoscendo il carattere del Sovrano, sempre stato molto geloso delle sue prerogative, lo avrebbe fatto senz’altro. Siamo tuttavia in piena crisi diplomatica per le pretese tedesche sull’Austria e sulla Cecoslovacchia. Abdicare in quel momento avrebbe significato lasciare l’Italia totalmente nelle mani di Mussolini. Il Re però ben sapeva che, per quanto fosse indebolita la sua posizione, la Monarchia rappresentava ancora per la maggioranza degli italiani l’unica àncora di salvezza.
Mussolini provocava continuamente la Monarchia: voleva trovare il modo di disfarsene. Parlando con Ciano Mussolini fu esplicito: «Nella presa del potere potremo andare più in là alla prossima occasione. Questa sarà certamente quando alla firma rispettabile del Re si dovesse sostituire quella meno rispettabile del Principe». Più chiari di così!
La visita ufficiale di Hitler in Italia, nel maggio 1938, con una Corona esplicitamente contraria al Führer, incoraggiò le smanie repubblicane del Duce. Del resto i nazisti chiaramente indicarono a Mussolini “l’ingombrante inutilità della Monarchia Italiana”.
In quei giorni il Principe ereditario comparve solo di sfuggita; la Principessa e lui parteciparono esclusivamente alle cerimonie ufficiali di Napoli, loro residenza, mai altrove. Sotto il regime fascista non si poteva essere più espliciti.
Negli sconvolgimenti degli ultimi anni ‘30 sia in campo nazionale che internazionale (il partito fascista elevato a organo costituzionale, tramite la Camera dei Fasci e delle Corporazioni; le leggi razziali; Monaco e il Patto a Quattro; l’annessione dell’Albania ecc.), la figura del Principe Umberto appena si intravede: egli non vuole assolutamente essere coinvolto in tutte queste faccende che personalmente non approvava affatto.
Piccolo inciso: l’atteggiamento di Casa Savoia verso le leggi razziali era del tutto negativo. Ne è riprova quanto Re Vittorio Emanuele III disse a Mussolini durante un’udienza. Il Duce al Re: «Ci sono ventimila italiani con la schiena debole, Maestà, che si commuovono per la sorte degli ebrei». Il Re rispose gelido: «Fra quei ventimila italiani con la schiena debole ci sono anche io». Nella confusione del momento, con singolare incongruenza, Mussolini balbettò: «Certo Maestà, sono sentimenti che onorano la Maestà vostra».
Seguendo la regola scritta della Dinastia (i Savoia regnano “uno alla volta”) egli sta fuori dalla scena: non vuole suscitare e creare difficoltà al padre. Nello stesso tempo, però, essendo colto ed intelligente riflette sulla situazione: i pericoli incombenti rafforzano il suo originale antifascismo. Il suo sentimento tuttavia doveva essere coltivato in silenzio, esprimendolo soltanto nella cerchia di amici fidati.
In altre parole, il Principe Ereditario nella situazione del Paese e con l’indubbio quasi unanime appoggio popolare al fascismo, era costretto ancora una volta a quell’esercizio di doppia personalità, alla quale si era dovuto abituare facendo violenza a se stesso. Gli serviva per dissentire a determinati livelli ed in determinati ambienti, ma anche l’obbligava ad obbedire, come Principe e come militare.
La lucidità del pensiero del Sovrano (siamo al momento dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1940) è confermata da questo limpido “memo” fatto pervenire al figlio attraverso la Regina Elena:
«1) Dire no alla guerra. Destituire Mussolini, che resta al suo posto e arresta il Re. Il Re allora lancia un appello all’Esercito fedele: è guerra civile. L’alleato tedesco arriva subito in aiuto a Mussolini: occupa l’Italia. Il Re viene fucilato e i due dittatori proseguono la guerra, che alla fine perderanno. La memoria del Re caduto sarà sacra, ma i morti della guerra civile dal Sovrano provocata potranno considerarsi un prezzo equo e giustificato per il trionfo della Monarchia?
2) Oppure, il Re accetta la guerra, non vuole suscitare una guerra civile, quindi abdica e va in esilio, sciogliendo le forze armate dal giuramento, ed è esule in un paese neutrale. Hitler e Mussolini fanno la guerra, la perdono, gli alleati occupano l’Italia, il Re ritorna e riprende il trono. Gli italiani però non avranno scelta, avranno combattuto la guerra di Mussolini. Al suo rientro in Italia meriterebbe però il rispetto del popolo un sovrano andato comodamente in esilio mentre i suoi sudditi combattevano e soffrivano?
3) Ultima alternativa: Hitler e Mussolini vincono la guerra: in questo caso il Re viene sicuramente cacciato, la Repubblica proclamata. Il Re è tuttavia convinto che i due dittatori alla fine perderanno: i vincitori e gli italiani riterranno il Re responsabile della guerra dichiarata e perduta come e più di Mussolini. La Monarchia sarà abolita e Mussolini viene cacciato. Sarà la Repubblica. Ma si potrà dire che in questo caso gli italiani avrebbero avuto torto?».
Questo memo è una conferma della lucidità di Re Vittorio. Il Sovrano comprende le difficoltà in cui si troverà la Monarchia. Non ritiene necessario in ogni caso coinvolgere il figlio nelle sue decisioni per non comprometterlo. Re Vittorio tuttavia non si rende conto che sarà proprio il Principe Ereditario a doversi confrontare con le difficoltà di una guerra perduta e con le scelte, sia pure senza alternativa, prese dal padre.
Questa era la difficilissima posizione del Principe Umberto in quegli anni tragici per la nostra Patria. Dal 1938 egli accentua il suo dualismo di sempre: ufficialmente vive da Generale disciplinato e da Principe ligio agli ordini del Padre; privatamente cerca di trovare alternative alle previsioni pessimistiche del Sovrano. Purtroppo per lui è troppo tardi.
Ciano annoterà nel suo diario:
«Lungo colloquio con il Principe di Piemonte. Benché sia stato con me cortese personalmente, pure ho sentito nel suo animo molta amarezza... Ha criticato con parole aperte il sistema in genere e la stampa in particolare. Vive nell’ambiente militare ed ha assorbito in questi mesi una buona dose di veleno che in lui ha fatto effetto... Non ha né l’esperienza né l’acume del padre benché io lo ritenga di gran lunga superiore alla sua fama». Ciano ha ragione solo parzialmente: il Principe Ereditario sa invece sceverare benissimo la situazione; è logico che, come Principe Ereditario, non può fare una politica diversa da quella del Sovrano. Anzi deve obbedire, i Principi Reali non fanno politica.
All’entrata in guerra dell’Italia, il Re desidererebbe che il Principe uscisse dal suo anonimato ed assumesse le sue responsabilità militari. Mussolini invece è contrarissimo: così il Generale Umberto di Savoia viene soltanto nominato Ispettore delle Armate sul fronte francese: un incarico di carta.
Finita la campagna di Francia, il Principe riprende le sue ispezioni militari nella penisola. Aspirerebbe invece ad un comando in Africa ma non c’è nulla da fare. Nell’aprile del 1942 è nominato teoricamente Comandante del Gruppo Armato Sud, dove l’autorità effettiva è già in mano al Feldmaresciallo tedesco Kesserling.
Siamo vicini all’8 settembre 1943. Il fascismo “ha ripiegato le vele”: non è riuscito a defenestrare la Corona ed è ad essa che si rivolgono le speranze degli italiani. D’altra parte fino allora era impensabile che un colpo di Stato della Corona potesse defenestrare il Duce che aveva ancora dalla sua parte un ampio assenso popolare. Dopo la guerra però molte cose avrebbero dovuto cambiare.
I Principi di Piemonte continuano ad essere indicati negli ambienti fascisti come ostili alla guerra ma anche in continua ascesa nel favore della pubblica opinione. Il Principe critica sempre di più l’organizzazione militare e il regime e viene considerato da moltissimi ambienti - anche in Vaticano - come la salvaguardia della Monarchia dopo Mussolini.
Sorvoliamo su tutte le voci e le storie sull’attività antifascista della Principessa Maria José: fece quanto possibile, attraverso vari contatti, per modificare la difficile situazione della Monarchia in quelle circostanze. Non ebbero alcun peso essendo impensabile che la Principessa avesse una qualche influenza sulla politica italiana. Siamo rimasti nel campo di ipotesi, di piani fantasiosi e di approcci col nemico del tutto irreali.
Nel 1943 fu conferito al Principe Ereditario il grado di Maresciallo d’Italia. Si consolidò anche la sua sensazione che l’atteggiamento di “disciplinato figlio in uniforme del Sovrano” fosse oramai irrazionale e pericoloso. Purtroppo le sue idee chiare e precise al riguardo avrebbero comportato una ribellione al Governo ed al Re: nelle Monarchie ciò non è ipotizzabile.
Sappiamo tutti come andarono le cose. Il Gran Consiglio del Fascismo sfiduciò Mussolini il 24 luglio 1943: il Re ebbe così l’appiglio costituzionale per dimettere il suo Primo Ministro e sostituirlo con il Maresciallo Pietro Badoglio.
Il Governo Badoglio nei suoi primi 45 giorni cominciò immediatamente a cercare di far uscire l’Italia dal conflitto, rivelatosi totalmente perduto per l’Italia, che per di più non aveva più alcuna possibilità di giovare militarmente all’alleato tedesco. La situazione era di una gravità estrema ed era anche estremamente difficile arrivare ad un armistizio con gli alleati, senza provocare la violenta reazione dell’alleato tedesco.
Le trattative furono condotte abbastanza maldestramente: non ci si rendeva conto che gli Alleati, come da loro dichiarazioni precedenti, non avrebbero accettato che una resa incondizionata. Il 3 settembre fu firmato l’armistizio di Cassibile ma è tuttora fonte di discussione quale fosse stata la data precisa dell’annuncio ufficiale dell’armistizio.
Il Generale Carboni, Comandante del Corpo d’Armata Motocorazzato vicino a Roma (praticamente l’unica unità vicina alla capitale che avrebbe potuto e dovuto contrastare una reazione tedesca), si comportò con il Generale U.S.A. Taylor - venuto a Roma per concordare con lo S.M.R.E. il lancio di una divisione aereotrasportata vicino alla capitale - in maniera così equivoca e così poco lineare, che l’americano ritornò immediatamente ad Algeri convinto che gli italiani “ciurlassero nel manico”.
Aggiungerò, per delineare le responsabilità gravissime del Generale Carboni con le conseguenze disastrose che il suo atteggiamento ebbe susseguentemente, che al Consiglio della Corona, del quale egli faceva parte, convocato dal Re lo stesso 8 settembre, dopo che alle ore 14,00 Radio Algeri aveva già annunziato unilateralmente l’armistizio, questo ufficiale non si peritò di richiedere l’annullamento dell’armistizio e la continuazione della guerra contro gli Alleati! No comment.
Il Re si prese da solo la responsabilità di accettare l’armistizio nelle difficili condizioni che questo ambiguo anticipo avrebbe creato al Governo ed alle Forze Armate Italiane. Ciò comportò inevitabilmente, date le circostanze, che il Re ed il suo Governo furono costretti a lasciare Roma per non cadere nelle mani dei tedeschi. Conosciamo bene le discussioni in argomento, ma pochi si resero conto, allora come oggi, delle conseguenze che ne sarebbero scaturite se il Capo dello Stato e il Governo fossero rimasti a Roma: annullamento immediato dell’armistizio, prigionia tedesca del Re il che avrebbe significato che nessuna istituzione legittima avrebbe potuto garantire l’armistizio testé firmato. Le disgrazie per la nostra patria e le conseguenze di tutto ciò sarebbero state ancora peggiori.
Ricordiamoci - e nessuno mai lo dice - che i tedeschi avevano già messo a punto un piano per la cattura del Sovrano e della Famiglia Reale. Se questo piano fosse riuscito, l’Italia sarebbe stata rappresentata soltanto dai “Quisling” di Mussolini a Salò e la Monarchia non avrebbe potuto instaurare al Sud quel nuovo rapporto con gli anglo-americani, con i quali aveva firmato un armistizio.
Ma sulla cosiddetta “fuga” del Re e del Governo da Roma, molto si è detto e molto si dovrebbe ancora scrivere per ristabilire la verità di quei fatti. Poiché qui parliamo di Umberto II, non è il caso di entrare in questo argomento.
Quale fu l’atteggiamento del Principe di Piemonte in quei tragici giorni, seguendo il Sovrano suo Padre ed il Governo nel trasferimento da Roma a Brindisi? La storiografia ufficiale parla spesso del desiderio espresso dal Principe di ritornare a Roma: prendere il comando delle truppe nella capitale ed in Italia per resistere ai tedeschi con un Principe di Casa Savoia alla loro testa. Da un punto di vista sentimentale, il desiderio dell’Erede al Trono era più che giustificato: del resto esso rientrava esattamente nella mentalità generosa di Umberto.
Senonché il Principe dovette rapidamente comprendere l’impossibilità di un tale gesto: il Re aveva 74 anni, dei quali ben 43 di difficile regno che indubbiamente avevano logorato la fibra del Sovrano. Umberto era l’Erede al Trono, suo figlio, un bambino di 6 anni, stava per passare in Svizzera. La continuità della Dinastia e del suo capo, unici garanti dell’armistizio di fronte agli alleati, era quindi affidata non solo al Re, ma anche all’unico figlio. Il Principe Umberto non poteva quindi ritornare a Roma: gesto eroico sì e che forse avrebbe salvato la Dinastia, ma al prezzo della rovina del futuro della Patria.
Umberto pertanto seguì il Padre a Brindisi: al Sud è determinante nello stabilire con gli Alleati un rapporto di collaborazione di primissimo ordine, facendo di tutto per attenuare le dure condizioni dell’armistizio. Mette in opera tutta la sua influenza per ricostituire l’Esercito e le Forze Armate rimaste al Sud, tra le quali preminente la Regia Marina (che, non dimentichiamolo, salpò per Malta solo ed esclusivamente per eseguire gli ordini del Re).
A poco a poco la personalità del Principe di Piemonte, sempre nel rispetto delle prerogative e della figura del Sovrano, si fa sempre più importante. Sempre più apprezzato è il Principe, sia dagli Alleati come da quegli uomini politici al Sud coi quali aveva a che fare. Purtroppo per la maggior parte di costoro l’unico scopo era l’abbattimento della Monarchia e non il portare l’Italia ad una pace quanto meno onerosa possibile. (Per inciso dirò che la popolarità del Principe con gli Alleati ebbe una conferma straordinaria in occasione della visita che Re Umberto, oramai in Esilio, fece in America nel 1963. Fu ricevuto dal Presidente Eisenhower a Washington come un Capo di Stato; con il Generale Mark W. Clark, già comandante delle truppe americane e poi di tutte le truppe alleate sul fronte italiano, visitò numerose installazioni militari negli Stati Uniti).

Nel frattempo Mussolini, liberato dalle truppe naziste, aveva proclamato la Repubblica di Salò (con se stesso come presidente) nella parte settentrionale d'Italia, ancora sotto il controllo delle truppe nazifasciste. I Savoia furono attaccati dalla stampa fascista, ed iniziarono ad apparire le prime accuse d'omosessualità contro Umberto, soprannominato "Stellassa".
Il famoso dossier ricattatorio si era infine rivelato utile.

Sotto pressione degli Alleati, continuamente pungolati dai politici italiani al Sud perché risolvessero il problema della Monarchia e della persona di Vittorio Emanuele III, il 12 aprile 1944 il Re fu costretto a delegare all’Erede al Trono la Luogotenenza Generale del Regno, con effetto dalla liberazione di Roma. Il vecchio Sovrano, pur rimanendo nominalmente Re d’Italia, si ritirò a vita privata.
Con la liberazione di Roma, il 4 giugno 1944, l’Erede al Trono Umberto di Savoia, Principe di Piemonte, assume l’incarico di Luogotenente Generale del Regno (si noti l’espressione voluta dai politici italiani: “del Regno”, non “del Re”, come era avvenuto nel 1915-18 quando, con l’assenza del Re da Roma trasferitosi al fronte, lo zio Tommaso Duca di Genova fu nominato Luogotenente Generale del Re), altra prova dell’accanimento politico contro la Monarchia degli uomini politici di allora.
Quindi a tutti gli effetti è vero che Umberto di Savoia diventò sì, nominalmente, Re con l’abdicazione del padre nel maggio 1946, ma in realtà fu Re effettivo d’Italia fin dal giugno 1944. È pertanto errato definirlo “il Re di Maggio”.
Per il Principe Umberto il periodo della luogotenenza fu quantomai difficile. Aveva contro tutti i partiti politici allora esistenti e tra questi si distingueva per fanatismo e accesa propaganda antimonarchica il piccolo Partito d’Azione (destinato a scomparire dopo pochi anni di Repubblica), pur composto da uomini di grande levatura e professionalità.
Tra i suoi compiti, quello di cercare di aumentare la partecipazione alla campagna militare degli Alleati sul nostro territorio delle truppe del Regio Esercito. Avremo così prima il Raggruppamento Motorizzato, poi il Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.), infine i Gruppi di Combattimento nell’ultima fase della campagna d’Italia (gennaio-aprile 1945) dopo lo sfondamento della linea gotica. A questa, purtroppo, le truppe italiane non parteciparono perché il C.I.L. fu ritirato dal fronte a fine agosto 1944 per permettere l’organizzazione dei gruppi di combattimento.
Durante la Luogotenenza il Principe Umberto visitava di continuo i soldati al fronte (come pure le truppe alleate, specie i polacchi del Generale Anders che lo accolsero sempre con gradissimo entusiasmo). Politicamente egli agì sempre con grande equilibrio, misura e competenza - e soprattutto grande spirito di sacrificio - nel difficile incarico affidatogli dal padre.
Doveva agire, non dimentichiamolo, in un contesto politico ostile dove molte delle sue prerogative, spettanti costituzionalmente e secondo lo Statuto al Sovrano, non gli furono riconosciute. Esempio il giuramento dei Ministri, che pure erano Ministri del Regno, non menzionava più la figura del Re, tuttora Capo dello Stato: si trattava di un giuramento fasullo e del tutto irrilevante, con un vago riferimento alla Patria ed alla Nazione.
Le rivalità, le liti, le piccinerie, le ambizioni degli uomini politici italiani anche a quell’epoca sono ben descritte nelle memorie del Ministro della Real Casa Falcone Lucifero. Il Luogotenente prima e il Re dopo mantenne sempre un atteggiamento di comprensione, di pazienza, di interesse nei confronti di quel mondo politico di allora, già così rissoso, il che valse al Luogotenente Generale un ampio riconoscimento da parte di questi personaggi tra i quali rarissimi erano i monarchici.
Uno dei più interessanti giudizi su Umberto Luogotenente Generale del Regno è quello di Churchill, in Italia nell’agosto 1944 per essere presente all’inizio dell’offensiva dell’Ottava Armata Britannica sull’Adriatico per lo sfondamento della Linea Gotica. Nelle sue memorie, il Primo Ministro inglese così si esprime: «All’Ambasciata Inglese a Roma incontrai per la prima volta il Principe Umberto, che era allora Luogotenente Generale del Regno, il Capo effettivo dello Stato e Comandante delle Truppe Italiane combattenti. La sua brillante e interessante personalità, la sua completa comprensione di tutta la situazione, militare e politica, mi diede un senso di vivo compiacimento e maggiore fiducia di quanta me ne avevano dato le conversazioni con i vari rappresentanti dei partiti politici. Io sperai vivamente che egli potesse avere una parte importante nella creazione di una Monarchia Costituzionale in un’Italia libera, forte e unita». Può essere interessante un commento del Luogotenente al termine del suo incontro con Churchill (riferito dal Capitano di Fregato Rodolfo Balbo, allora Aiutante di Campo del Principe): «Ce n’è voluto per portare in porto questo incontro perché Churchill non voleva assolutamente saperne di vedere né Bonomi né Badoglio. Sono stato io ad insistere perché, oltretutto, non volevo che si dicesse che armeggio per mantenermi a galla col suo aiuto straniero».
Sono frasi e giudizi importanti che dipingono effettivamente la personalità di Umberto di Savoia e quale Sovrano egli sarebbe stato per l’Italia.
Il Luogotenente Generale tenne anche a sottolineare i rapporti eccellenti esistenti fra il Quirinale e il Vaticano: per la prima volta, nell’inverno del 1946, volle dare un grande ricevimento al Quirinale per ricevervi i nuovi Cardinali nominati da Sua Santità Pio XII nell’ultimo Concistoro.
Nel maggio 1946 Re Vittorio Emanuele III decide di abdicare sacrificando, dopo 46 anni di regno, la sua persona e conoscendo quanto, sia pure ingiustamente, egli fosse ritenuto un ostacolo al mantenimento della Monarchia.
Umberto di Savoia diventa così Re d’Italia. Il popolo romano volle tributargli un’entusiastica manifestazione di fedeltà e di affetto in Piazza del Quirinale, piena zeppa, chiamando ripetutamente al balcone il Re, la Regina ed i Principi Reali.
Com’era da attendersi, i partiti politici fecero fuoco e fiamme per questa abdicazione ritenuta contraria al patto di tregua istituzionale che essi consideravano istituitosi con l’assunzione da parte del Principe Umberto della funzione di Luogotenente Generale del Regno. Poiché tutto era però avvenuto nella più stretta legalità istituzionale, furenti si rassegnarono ad accettare l’assunzione al trono di Re Umberto II.
Tralasciamo le vicissitudini della campagna elettorale per la Costituente (mai campagna elettorale politica fu meno serena e più condizionata dagli avversari della Monarchia di questa). Veniamo adesso al Referendum. Come premessa bisogna ricordare che il Referendum fu possibile solo e in quanto istituito con atto personale e firma del Luogotenente Generale del Regno nelle sue capacità di Capo dello Stato. Un Referendum, che lo si voglia o meno, concesso da colui che era allora in Italia il Sovrano effettivo.
Fu anzi proprio il Luogotenente Generale ad insistere per il Referendum come scelta per la decisione sulla forma istituzionale dello Stato piuttosto che lasciare ad un’Assemblea Costituente tale decisione.
Il Principe affermò che il Referendum era in questo caso la forma migliore: il popolo intero poteva così decidere direttamente su una questione così importante. Non tramite uomini politici che, anche se eletti dal popolo, sarebbero stati altamente influenzabili in un’eventuale Assemblea Costituente.
Nel mese prima del Referendum, Re Umberto fece il possibile per rinforzare la Monarchia. Indubbiamente la sua personalità, il suo fascino, la sua semplicità e la sua grande disponibilità nei confronti di tutto e di tutti contribuirono notevolmente a dare alla Monarchia il grande numero di voti ottenuti nel Referendum. Il Re si rendeva però perfettamente conto come tale Referendum non poteva essere veramente determinante per il futuro dell’Italia, date le condizioni eccezionali in cui doveva tenersi. Si pensi che nel 1946 non votarono ben 600.000 italiani, ancora prigionieri di guerra e non rientrati. Inoltre non votarono le province di Trento, Bolzano, Udine e Trieste, ancora sotto regime militare alleato, come pure non votarono molte persone che per una ragione o per l’altra avevano perso il diritto al voto.
In una situazione così poco chiara e così poco democratica, il Re volle essere straordinariamente corretto, tanto da promettere ufficialmente al popolo italiano un secondo Referendum confermativo ove la Monarchia avesse vinto con un’esigua maggioranza: davvero più democratici di così non si poteva essere.
La Repubblica ufficialmente vinse con 12.672.767 voti contro 10.684.905 dei Monarchici. La differenza era praticamente di due milioni, pertanto molto esigua. Queste cifre fanno comprendere quanto sarebbe stato necessario che gli italiani potessero fare una vera scelta al di fuori delle tensioni del 1946, rinviando il Referendum almeno di un anno. L’ironia della sorte volle che, malgrado che la Repubblica si sia reiteratamente e monotamente sempre proclamata antifascista, buona parte dei voti ottenuti furono quelli dei fascisti repubblicani di Salò!
In ogni caso, data l’incertezza dei risultati, il Presidente della Corte di Cassazione, Sua Eccellenza Pagano, nel proclamare le cifre della consultazione concluse: «La Corte, a norma dell’art. 19, omissis, emetterà in altra adunanza il giudizio definitivo sulle contestazioni, proteste, reclami presentati agli uffici delle singole sezioni, a quelle centrali e circoscrizionali e alla Corte stessa... Integrerà il risultato con quello delle sezioni ancora mancanti e indicherà il numero complessivo degli elettori votanti, dei voti nulli e di quelli attribuiti». Questo avveniva il 5 giugno 1946.
Mentre la Corte di Cassazione esprimeva grossi dubbi sulla validità delle votazioni, nel Governo l’impazienza cresceva e pochi si dimostravano disposti ad attendere che la Corte terminasse i controlli annunciati, come sarebbe stato democratico e logico, ed in base a questi proclamasse finalmente a Repubblica.
Cominciò allora quella lotta sorda e sottile tra il Governo ed il Sovrano. Il Re ritenne doveroso far partire immediatamente per il Portogallo la Regina e i suoi figli e per l’estero tutti i Principi Reali (meno la vecchia Duchessa d’Aosta alla quale permise di rimanere a Napoli). Il Re disse tuttavia che lui sarebbe partito soltanto quando la Corte di Cassazione avesse verificato i risultati definitivi del Referendum. Il Governo, molto poco diplomaticamente, tentò di offrire la sua garanzia sui risultati e la legalità del Referendum: dichiarazione del tutto inaccettabile essendo il Governo parte direttamente in causa, tanto che De Gasperi se ne rese immediatamente conto comprendendo la risposta del Sovrano: in essa si diceva chiaramente che la proclamazione di un Governo Repubblicano prima della decisione della Corte di Cassazione sarebbe stata un’illegalità.
La situazione era molto difficile. Dalla parte del Sovrano ben dieci milioni di italiani oltre a quasi tutte le Forze Armate ed ai Carabinieri Reali. Gli Alleati, tuttavia, praticamente aventi ancora il controllo effettivo del Paese, avevano dichiarato che la posizione del Re nei confronti del Paese non era cambiata con la lettura dei voti, visto che la Corte di Cassazione aveva semplicemente deciso di non decidere. In proposito fu molto esplicito l’Ambasciatore britannico Sir Noel Charles il quale disse chiaramente: «Inglesi ed Americani non desiderano che il Governo Italiano assuma una posizione in contrasto con le decisioni della Corte di Cassazione». Più dubbi di questi da parte di osservatori neutrali come gli anglo-americani, non si potevano esprimere.
Nell’incertezza della situazione, il 12 giugno il Re indirizzò una ferma lettera al Governo: «... ancora una volta confermo la mia decisa volontà di rispettare il responso del popolo italiano espresso dagli elettori votanti quale risulterà dagli accertamenti e dal giudizio definitivo della Suprema Corte di Cassazione, chiamata per legge a consacrarlo. ... è mio desiderio di apportare il massimo contributi alla pacificazione degli spiriti, sono sicuro che possiamo continuare quella collaborazione intesa a mantenere quanto è veramente indispensabile: l’unità d’Italia». Il Sovrano si confermava così di animo e sentimenti profondamente democratici: purtroppo il suo atteggiamento era patetico perché egli non si rendeva conto quanto i suoi richiami alla legalità non volessero essere accettati dal Governo; era un intervento inutile. I ministri nella maggioranza si consideravano rivoluzionari, non tenevano conto della legalità ed, anzi, si sentivano in realtà gli eredi di Piazzale Loreto!
Momento tragico ed indubbiamente gravissimo: poteva scoppiare uno scontro armato tra un’Italia meridionale e monarchica e un’Italia settentrionale relativamente repubblicana. Attorno al Re i suoi Consiglieri erano divisi fra coloro fautori di un gesto di forza e altri di attendere le decisione della Corte di Cassazione.
Nella notte fra il 12 e il 13, per sua sicurezza personale, il Re dormì in casa di un amico.
In quella notte tuttavia accadde l’imprevedibile: il Governo tagliò la testa al toro. Effettuò cioè un vero e proprio colpo di Stato proclamando “Capo Provvisorio dello Stato” De Gasperi, con il Re ancora a Roma e la Corte di Cassazione indecisa sui risultati definitivi del Referendum. Chiaramente fu un gesto altamente illegale.
Nelle circostanze, Re Umberto misurò la sua statura, dimostrando il suo equilibrio, il suo senso dello Stato, nella forza della tradizione millenaria che sapeva di avere in lui. Il Sovrano prima di tutto ed unicamente pensa all’Italia: in questa prospettiva Umberto II piglia la decisione che lo consegna alla storia.
Esaminiamo tuttavia le alternative, possibili e fattibili la mattina del 13 giugno 1943 da parte del Re:
1) dichiarare il Governo decaduto, costituirne uno nuovo: inchiesta sul Referendum e nuova consultazione;
2) non tener conto del colpo di Stato del Governo e rimanere a Roma fino al giudizio della Cassazione, previsto per il 18 giugno;
3) emanare un proclama denunciando l’usurpazione e appellandosi al popolo;
4) lasciare l’Italia alla luce del sole, con gli onori di rito, nessuna abdicazione, nessun passaggio di poteri, proclama alla Nazione.
Ai molti pareri contrari, fra i quali quelli che insistevano per la maniera forte, il Re rispose di non volere la responsabilità di un’altra guerra civile, dopo i disastri in ’Italia tra il 1943 e il 1945. Rifiutò ringraziando l’appoggio di coloro che glielo offrirono (decorati, reduci ecc. ecc.), come declinò l’aiuto del Generale Anders e delle sue truppe polacche. Scelse la quarta soluzione.
Partendo, nel cortile del Quirinale abbracciò il Duca Maggiore Riario Sforza Comandante dei Corazzieri e nel suo abbraccio comprese tutte le Forze Armate Regie. Arrivati a Ciampino non salutò i due Ministri del Governo, l’Ammiraglio de Courten della Marina e l’on. Cevolotto dell’Aeronautica, non riconoscendo più il Governo del quale facevano parte. Partì per Lisbona col suo piccolo seguito ed ebbe una traversata quanto mai burrascosa, atterrando prima a Madrid. In piena tempesta il pilota chiese al Re il permesso di tornare in Italia: gli fu risposto «Vada avanti, qualsiasi cosa succeda».
Il 18 giugno la Corte di Cassazione, dopo aver esaminato finalmente i vari ricorsi ecc. ecc., si limitò a dire soltanto il numero dei voti della Repubblica e quelli della Monarchia. Dopodiché il Presidente Pagano si alzò, lasciò la sala, senza pronunciare la formula che tutti si attendevano: «...in base ai risultati del Referendum si dichiara decaduta la Monarchia di Casa Savoia e si proclama la Repubblica Italiana». Il paradosso della nascita di questa Repubblica è tutto qui: essa non è mai stata proclamata ufficialmente.
Così Umberto II lasciò l’Italia per un esilio da cui non poté mai più ritornare. Ma la lasciò da Re perché non abdicò mai: non era più Re d’Italia perché l’Italia era una Repubblica, ma era pur sempre il Re e tale rimase fino all’ultimo dei suoi giorni.
L’Italia è una Repubblica “de facto” da 58 anni: oggi è abbastanza solida, accettata e riconosciuta dalla maggioranza degli italiani. Non si comprende quindi perché si ostina a disconoscere la verità che ne fu alla nascita: un atteggiamento che ne rafforzerebbe invece il prestigio e la sicurezza. Ricordiamo infatti:
1) il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica fu un vero e proprio colpo di Stato: se esso fu relativamente incruento (salvo i noti moti di Napoli), questo fu dovuto a Re Umberto II.
Le Forze Armate, ancora strettamente legate dal giuramento di fedeltà al Sovrano (la Marina e i Carabinieri prima di tutti), erano nella massima parte monarchiche. Ad un ordine sarebbero state senz’altro pronte a reagire al colpo di Stato governativo e la loro crisi di coscienza fu superata solo dalla fedeltà al Sovrano ed all’obbedienza che come militari gli dovevano. E così fu evitato all’Italia un passaggio istituzionale assai più difficile e controverso.
2) Come seconda conseguenza, si può dire l’assoluta inutilità dell’esilio forzato del Sovrano e del suo Erede maschio prorogatosi per più di 60 anni. Si poteva anche comprendere nei primi anni della Repubblica, dato che metà degli italiani aveva votato Monarchia. Ma già dal 1950 era diventato altamente ingiusto.
Umberto II in esilio fu sempre il Re: come tale agì e si comportò fino al momento della sua scomparsa, nel 1983.
Riceveva gli italiani a Villa Italia, ben pochi di coloro che erano di passaggio in Portogallo non si recavano a visitarlo. Il Re si teneva al corrente delle vicissitudini italiane, sia di cronaca che politiche, interveniva col suo aiuto finanziario, inviando i suoi rappresentanti - Principi reali o funzionari di Corte - ogniqualvolta riteneva necessaria la presenza della Monarchia negli eventi della Patria.
Gli avvenimenti felici italiani formavano la sua felicità; gli eventi tristi, quali ad esempio la tragedia del Vajont (proprio durante la sua visita americana), lo colpivano profondamente. Il suo rammarico ed il suo dolore furono sempre non poter essere vicino di persona agli italiani che soffrivano. La mancanza della Patria fu per Re Umberto II la più grande pena ed il più grande dolore, dal quale non riuscì mai a guarire in tutto il suo lungo esilio.
Citerò un episodio personale che conferma questo suo atteggiamento e l’amore verso una Patria, con lui mai stata molto generosa. In una delle mie visite al Re, d’estate, quando mi recavo in vacanza nell’Algarve, come tutti gli anni chiedevo per mia moglie e per me un’udienza al Sovrano. Ci ha sempre ricevuti con la cordialità e la disponibilità ripetutamente dimostrata verso le nostre famiglie. Mi pare fosse nell’agosto del 1975: Gheddafi espulse dalla Libia tutti gli italiani. La nostra visita al Re fu ritardata di alcune ore perché era assente e ritornava di lì a poco. Quando fummo ricevuti, scusandosi per il ritardo, disse che era appena ritornato in volo dal Marocco: si era recato dal suo amico Re Hassan II per chiedergli, come sovrano musulmano, di intervenire presso Gheddafi ed alleviare le pene e le sofferenze degli italiani espulsi dalla Libia dopo generazioni di lavoro in quel Paese. A tanti anni di distanza dall’inizio del suo esilio, Re Umberto pensava ancora al bene di coloro che erano stati i suoi sudditi.
Molto altro su Re Umberto non c’è da aggiungere. Possiamo però sottolineare che i 37 anni del suo esilio sono stati esemplari per la dignità con la quale il Sovrano sopportò questa immensa pena: sono stati gli anni nei quali questo Re ha manifestato la pienezza di una regalità che per esprimersi non ha avuto bisogno né di reggia né di trono.
Riporto ancora l’osservazione del Comandante Rodolfo Balbo sulla Monarchia, riferita a Re Umberto II: «... con l’inaridirsi delle radici stesse delle Monarchie, queste possono sopravvivere ed anche prosperare soltanto se fondate sull’accordo emotivo che un sovrano riesce a stabilire con il suo popolo. Ciò che, ne sono certo avrebbe potuto fare Umberto II».
Ed a questo punto leggo un significativo periodo del bellissimo proclama di saluto agli italiani quando partì per l’esilio il 12 giugno 1946:
«Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed al potere indipendente sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o subire la violenza ... ... ... A tutti coloro che conservano ancora fedeltà alla Monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio e rivolgo l’esortazione a voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace. Con l’animo colmo di dolore ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia terra. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove. Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome dell’Italia e il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli. Viva l’Italia».
La morte in esilio di Re Umberto II è stata il coronamento delle sue sofferenze. Sono anche io dell’avviso di alcuni che far rientrare all’ultimo momento il Sovrano morente in Italia, non avrebbe certo giovato all’immagine ormai formatasi negli italiani, monarchici e repubblicani, di un uomo dignitoso anche nelle circostanze più terribili; di un uomo forte nel dolore; di un Re ligio ad una legge repubblicana che ha voluto estraniare lui e tutta la Dinastia dalla nostra Patria e dalla storia d’Italia, dinastia alla quale si deve l’indipendenza e l’unità italiane. In fondo, dobbiamo esserne lieti: gli è stata risparmiata l’ultima umiliazione, di dover ringraziare chi aveva atteso soltanto la sua agonia per decidere; soltanto umiliante sarebbe stato il ritorno del Re sull’onda della commozione e della pietà.
UN RE NON RIENTRA IN PATRIA DALLA PORTA DI SERVIZIO.
Adesso Re Umberto riposa, come da lui desiderato, nell’Abbazia di Hautecombe, assieme alla Regina Maria José ed al suo avo Re Carlo Felice di Sardegna, oltre a tanti Conti e Duchi di Casa Savoia. Noi non possiamo altro che augurarci che questo grande ed umano personaggio possa essere sepolto dove gli compete come Re d’Italia e con lui devono riposare Re Vittorio Emanuele III, Sovrano per ben 46 anni; la Regina Elena, esempio di madre e sposa ammirevoli, sempre dedita al benessere del suo popolo, e la Regina Maria José che ha condiviso l’esilio assieme a suo marito ed a suo figlio: nel Pantheon di Roma.
Auguriamoci che la Repubblica - almeno adesso - comprenda l’importanza delle tradizioni e della storia che fanno parte intrinseca dell’animo di una nazione. Casa Savoia, prima di essere la Dinastia regnante d’Italia, è stata antesignana nel comprendere l’importanza della missione di unificare l’Italia, a cui il destino l’aveva portata. Umberto II, come i Sovrani che l’hanno preceduto, fa parte della nostra storia, della nostra tradizione, della nostra vita nel bene e nel male.
Di questa eredità, di questo ricordo della Dinastia, Re Umberto è stato il più grande artefice: si è sacrificato perché di Casa Savoia, nel cuore degli italiani, potesse rimanerne un integro ricordo. Che poi la Repubblica dalla sua nascita ad oggi abbia fatto di tutto per cancellare dalla storia, dal ricordo e dalla riconoscenza degli italiani, Casa Savoia e specialmente Re Umberto II è tutta un’altra storia.


Foto:

image (giorno del matrimonio)

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image (cartolina della nascita)

image (Umberto in fasce)

image (Umberto, Principe di Piemonte, all'età di un anno, tra le braccia della Regina Elena. Alla sua destra la Duchessa madre di Genova, Elisabetta di Sassonia, alla sua sinistra la Regina Madre Margherita)

image (Umberto nell'uniforme dei Corazzieri Reali)



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image (Fotografia ufficiale del fidanzamento di Umberto e Maria José)

 
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view post Posted on 11/10/2006, 16:32

Marie-Antoinette

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Presto continuiamo con il resto dei parenti di Maria Josè e di Umberto!!!

Castelli:

Adesso mettiamo ancora tutta una serie di castelli dove Maria Josè e Umberto hanno vissuto!

CASTELLO DI RACCONIGI:

Camera della Regina Elena di Savoia, poi di Maria Josè:

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Esterno del castello:

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Il Theatrum Sabaudiae:

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Il Castello com'era nel 1675:

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Stampa d'epoca:

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Scale esterne:

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